Eleonora

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Ombre che si allungano, sprazzi di luce come cristalli spezzati dalle ampie volute di un'oscurità che sembra voler crollare.
Rumore di passi, sempre più vicini.
Fiato che si condensa, il crepitare di un fuoco.
Una maschera rossa improvvisamente vicina.
Dalle orbite cave viene fuori una bruma rossastra.
Poi il risveglio.
(-era solo un sogno)

La fiamma della candela si piegò per un attimo, come gravata dal peso dei mille pensieri racchiusi in quella stanza. La luce tremula si affacciò alle pareti sporche di sangue dipingendole di riflessi arancioni e istanti di penombra. La donna seduta al vecchio scrittoio si voltò a guardare la luce tremula, sospirando. Il bagliore le illuminò il viso, una ragnatela di preoccupazioni che in tutti i loro incroci sembravano volere racchiudere la concezione stessa del tempo. Più che i capelli castani e lisci, a gravare sulle sue spalle erano i sogni che aveva smesso di sognare.
Il sospiro suonò come una resa e lo sguardo si trovò a vagare per la stanza. Le pareti spoglie erano coperte da dipinti di sangue tiepido e l'unica finestra che dava sulla città addormentata era resa inviolabile da tendaggi scuri e pesanti. Si levò dal dito l'anello di bronzo a forma di uroboro che aveva conservato tanto a lungo e lo poggiò in equilibrio sul tavolo. Osservò con cura il liquido dorato che riempiva la scodella che le stava davanti, ne accarezzò il bordo senza riuscire a nascondere una certa soddisfazione. Si decise a bere l'infuso. Raccolse per il gambo quell'ultimo fusto di giusquiamo che giaceva di fianco alla scodella e lo rigirò fra le dita ammirandone i fiori.

Venezia di notte è un sogno adagiato sull'acqua. Un sogno di molti sognatori cullati dalle onde. Un sogno che qualche volta può trasformarsi in un incubo.
Una figura avvolta da una mantella nera attraversa le calli quasi levitando a pochi centimetri da terra, fende la notte senza incontrare resistenza, è poco più che un'ombra fra altre ombre. Attorno tutto è solitudine e angoscia, un silenzio interrotto solo dal frusciare della stoffa scura che si solleva ad ogni alito di vento.
La città è vuota, accoglie solo i fantasmi di chi non ha voluto abbandonarla.
L'ombra si staglia sull'arcata bianca di una casa antica. Solleva una mano e tira giù il cappuccio, lasciando che la fioca luce dei lampioni l'illumini.
In lontananza, il campanile di San Marco suona un unico rintocco.
(-è quasi ora)

Non c'era molto altro da fare, se non aspettare: continuando a rigirare la pianta fra le dita si allungò sulla poltrona. E poi accadde -come era accaduto tante altre volte, senza che questo le impedisse di trasalire ancora. Il vento spirò con più forza scostando i tendaggi e il malumore di quelle stoffe volteggianti si unì a un debole frullare d'ali. L'anello sciolse il suo abbraccio, il serpente di bronzo smise di mordersi la coda e prese a strisciare sul tavolo.
Il rumore d'ali si fece più vicino ed intenso fino a cessare del tutto quando il corvo nero planò all'interno della stanza e si posò sul bordo dello scrittoio, gracchiando con una certa confidenza.
Lei lo guardò e, come a volergli bruciare la battuta, sussurrò:
«Mai più».
In tutta Venezia non s'era mai udita una risata tanto sguaiata.
Appollaiato sul tavolo come su un trespolo non c'era più un corvo ma un uomo sui trent'anni, vestito con un garbo che mal si addiceva al suo sguardo allucinato.
«Una citazione di assoluto livello!» replicò entusiasta.
L'uomo osservò la stanza, piuttosto spartana a dire il vero. Sembrò rimanere colpito dalla tela posta al centro, così composta nel suo dipanarsi di colori scuri, lucidi e tetri. Sembrava essere del tutto fuori luogo.
«Un lavoro ben fatto. Cosa hai usato per il rosso?» domandò.
«Sangue» rispose lei.
Lui annuì ridacchiando.
«Sì, sei sempre stata molto creativa».
L'uomo si stiracchiò sullo scrittoio, adocchiando la ciotola ormai vuota. L'annusò con vivo interesse, scrutandone le tracce giallastre.
«Doronico!» esclamò dopo qualche istante.
«Doronico» confermò la donna, agitando debolmente il fusto giusquiamo.
Lui la guardò come se la vedesse per la prima volta – ed in realtà la conosceva da sempre.
«Hai ancora i tuoi incubi?».
«Sempre».

Delle scale che si avvitano verso l'alto, una serie infinita di gradini che si rincorrono. Ogni gradino, un sogno che cessa di esistere, un'opera incompiuta, una rinuncia. Ogni gradino, un respiro. Ogni respiro, un dolore che scompare. La paura di non essere abbastanza, via. La paura di non essere amati, via. La paura di venire dimenticati, via.
La figura ammantata di nero divora quei gradini come se potesse sfamarsene. Percepisce l'orrore che sta attraversando, il senso di quella risalita dall'abisso.
Intorno a lei si muovono piccoli incubi, neri e deformi. Giocano per le scale, si inseguono, piangono. Piangono moltissimo. Forse anche loro la sentono avvicinarsi.
(-la fine)

«Hai ancora paura?».
«No».
Lui non disse nulla. Le diede le spalle e si affacciò alla finestra.
«Ti dicevo sempre che alla fine non avresti più avuto paura. Che gli incubi sarebbero andati via. Ti ricordi?».
«Sì, mi ricordo».
«L'ultima volta è successo in una notte come questa».
L'uomo si voltò a guardarla.
«Vieni a vedere» la invitò.
Lei provò ad alzarsi dalla poltrona, senza riuscirci. Lui allora la raggiunse, l'aiutò e la sorresse fino al davanzale.
Davanti agli occhi sgomenti di lei, una teoria di tetti che svettavano da una nebbia così alta e fitta da sembrare che volesse divorare la città. Chiuse gli occhi, sopraffatta dalla bellezza di ciò che aveva visto e insieme torturata dalla sensazione di vuoto che le aveva trasmesso quella massa grigia, impenetrabile e amorfa.
Riaprì gli occhi. Non c'era più la nebbia, non c'era più Venezia. Solo un oceano sconfinato che partiva dalla sua finestra per perdersi all'orizzonte di onde scure appena screziate di spuma.
«Non credevo fosse possibile».
«Non lo sarà mai, finché non ci credi».
Avvertì un mancamento, lui la sorresse. Le prese il volto fra le mani e sorrise – ma non parlò.
L'accompagnò alla poltrona.
Lei si lasciò cadere nell'oblio e i suoi occhi si chiusero – di nuovo.

L'ombra scura corre, letteralmente svolazza come la sua mantella nera. Il tempo sta per scadere e non può permettersi di arrivare in ritardo. Finalmente le scale sono finite.
Una porta di legno. Grande, pesante.
Oltre la porta, rumore di voci.

Si sentì bussare, ma non accadde nulla. La porta non si aprì, nessuno parlò.
«Alla fine hai imparato».
«Troppo tardi».
Lui scrollò le spalle, divertito dall'assurdità della situazione.
«Tardi, presto. Parole prive di significato: una catarsi è tale perché è attesa. Questo è il momento, non rovinartelo. Non ne avrai un altro».
«Sta per arrivare, vero?».
L'uomo le sorrise con una dolcezza che non si poteva comprare, né fingere.
«No, è già qui. Qui, dove tu l'hai disegnata» rispose, indicando la tela.
La tela si aprì. Proprio dove la donna aveva dipinto la maschera rossa con il sangue, si aprì uno squarcio e lei – l'ombra – venne fuori. Proprio come nel sogno, le si avvicinò a piccoli passi. Si tolse il cappuccio, rivelando la sua maschera cremisi. La guardò con attenzione, da vicino.
L'ombra si riconobbe dolorosamente, dita affusolate toccarono la maschera, togliendola.
La donna guardò l'ombra e riconobbe qualcosa che le somigliava ma era troppo diversa da sé per non averne paura.
L'ombra si chinò in avanti e la baciò, ed in quel bacio gli occhi della donna si spensero.
Per l'ultima volta.
L'uomo sorrise, raccogliendo l'involucro ormai vuoto freddo dalla poltrona.
«Hai sempre pensato che saresti morta subito dopo aver imparato» disse.
«Ma avresti mai pensato di rinascere?».
L'ombra – che non era più un'ombra ma era lei, una lei viva e luminosa – sorrise di rimando.
«No».

In piedi sul davanzale, tenendo quel guscio bianco stretto fra le braccia, l'uomo si voltò a guardarla per un solo istante.
«Andrà meglio, ora che hai imparato ad amarti».
Prima ci sarà sempre la paura del vuoto. Poi, lo slancio.
Addio, Eleonora.

Indice dei Nomi InvisibiliWhere stories live. Discover now