FIUME

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Voglio finirla qui, in queste acque putride, le cui piccole, puerili, onde si tendono la mano, solcando l'acqua con leggerezza, provocandone un dolce rumore, simile ad un riso sereno.

Tremo, la veste di lino non reggerà al vento algido di montagna. Ma se ce l'ho fatta io.

Le dita fremono, qualche lucchetto chiuso le fa stupire e danzare.

Non sto piangendo. Sono immersa nel cinismo più spietato, di chi sa che sta per compiere ciò che si sarebbe dovuto già compiere.

Stringo una rosa tra le mani, le spine mi fanno sanguinare, ho del sale iodato in tasca, lo strofino sulle ferite aperte.

Devo resistere.

Guardo il cielo, è nero come la pece, le chiome dei pini sembrano mani in processione, le cicale tra i folti fili d'erba intonano una melodia.

Torno indietro con la mente. A quando da bambina quelle stessa melodia mi emozionava e mi faceva addormentare serena, ricoperta d'amore.

Ma quello stesso amore mi ha portata quassù, a lambire con le braccia infreddolite una ringhiera arrugginita.

Mi sporgo. Delle barche ondeggiano piano, come sposi che ballano un lento.

Un senzatetto cammina a testa bassa all'altro lato della strada. Mi guarda, forse accigliato e con la testa che scuote, ma mi biasima, così come ho sempre biasimato mia madre.

Ho i sensi di colpa ancora in gola. Ho imparato ad annegare nel deserto.

È il momento di partorire tutti i miei aborti. Getto tutti i fogli che ho in tasca, annegano piano i miei feti morti, muoiono battesimati con l'inchiostro rovente: non finiranno nel Limbo.

Il fiume li risucchia senza troppi fronzoli, con un balzo sgarbato.

Mi passano per la testa i successi, i sogni dipinti sui muri di carta, le poesie a mezz'aria e gli amori mai nati.

Inizia a piovere, le gocce di pioggia accarezzano leggere le foglie dei pini attorno e poi si tuffano nelle acque scure del fiume, che posso percepire solo con le orecchie ed appena con lo sguardo.

Urlo una frase d'incontenibile trivialità. Non mi è mai stato permesso.

La mia vita è stata sempre legata ad un palo, ha provato a reagire, ma si è ritrovata solo più attorcigliata: in trappola.

Le gocce aumentano e diventano centinaia, migliaia, centinaia di migliaia.

Mi prendono a pugni il naso e le guance. Sono terribilmente algide e veloci.

Vorrebbero spazzare via il sale iodato dalle mie ferite, ma non capiscono che il sale nasce proprio dall'acqua marina, da dove sono nate anche loro, in uno spregevole ciclo.

Sembro una statuina in bella mostra su una mensola. Sono di cristallo e di creta.

La pioggia ha smesso.

È il momento di volare lontano.

Apro bocca, ma ne esce solo un gemito strozzato. Sono sotto anestesia, stanca e infreddolita.

Mi tuffo come una goccia di pioggia nell'acqua nero pece e mentre mi incatena alla sua corrente, rami spezzati mi graffiano il viso.

Mi addormento prima di arrivare al mare, sulla battigia dolcemente bagnata.

In questa vita muore chi è troppo fragile o troppo forte ed io non so da che parte stavo.








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