Ombixapina

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Ho iniziato, giusto qualche mese fa, su consiglio e sotto il patrocinio del dottor Franco – luminare in questo settore i cui servigi sono stati gentilmente pagati dai miei genitori, visibilmente e comprensibilmente preoccupati per il mio stato di salute, il quale nell'ultimo anno, e chi di voi mi conosce personalmente lo sa, è andato via via peggiorando – una terapia a base di Ombixapina. Il nome di tal farmaco vi sarà di sicuro noto, in quanto con basso dosaggio viene utilizzato con effetti ansiolitici; il che rende probabile che qualcuno di voi, al quale auguro un celere recupero e tanta buona salute, ne abbia ahimè fatto uso nella propria vita.

Le vicende che mi condussero a rivolgermi al dottore, in una giornata afosa di Agosto, non saranno resi noti qui di seguito, in quando, evidentemente, strettamente privati. Ciò che vi basterà sapere è che il mio nome è Anna, e che da cinque mesi sono entrata nel mio ventitreesimo anno di vita.

Non ho mai avuto problemi di salute come questi, quindi fu per me motivo di grande sorpresa, come potrete ben comprendere, quando Franco mi disse che avevo attraversato un periodo che mi aveva causato alcuni episodi psicotici. Non penso, al giorno d'oggi, di avere ancora ben compreso cosa siano, per definizione accademica, ma di sicuro ci sarà qualcuno là fuori che potrà essere testimone di un fatto acclarato: non sono piacevoli. Come già accennato di seguito, gli avvicendamenti susseguitisi, i quali mi condussero a tali episodi o l'oggetto stretto di tali episodi, per questione di riserbo e di dignità personale, non verranno narrati qui, in questa sede.

A questo punto, quindi, mi sembra doveroso specificare il motivo per il quale, ho deciso oggi, di battere queste pagine, che verranno lette presto da tutti voi. Il dottore, oltre ad avermi prescritto tale medicinale, oltre ad un ciclo settimanale di terapie della parola, mi chieste, in uno dei nostri ultimi incontri, di monitorare i miei miglioramenti e l'andamento dei miei sentimenti in quella che si sarebbe potuta definire una giornata tipo. Lui, pensa, dall'alto della sua esperienza, che ciò mi possa aiutare a delineare una marcatura tra ciò che avvenne prima, ed il futuro che sono intenta a costruirmi da adesso in poi: quindi, eccoci qua.

E' un martedì di fine settembre, e quest'anno il buon Dio sembra averci fatto dono di un clima più rovente del solito, il quale ha raggiunto il suo picco verso la metà di luglio, e da allora sino ad adesso sta lievemente sfumando, lasciando che la sua coda lambisca questi ultimi giorni di estate. Esco di casa, e siamo ormai giunti alla seconda settimana di somministrazione, oggi sarà il quindicesimo o sedicesimo dì. Occorre precisare che saranno passati almeno due mesi, dall'ultima volta che ho messo il muso fuori dall'uscio di casa, e la mia pelle fa fatica ad abituarsi di nuovo allo sfrigolio della vita là fuori: i colori, gli odori, il caldo sferzante del sole pallido di settembre che mi schiaffeggia con tenacia le gote; tutto questo mi giunge come nuovo. Percorro la rampa di scale con la furtività di un gatto che attende di balzare sulla preda inerme, un topolino di bosco. Compio il percorso verso il parco prospicente la nostra abitazione con la mano a coprirmi la faccia, temendo che il contatto diretto con la luce solare possa accecarmi del tutto, ho paura che i miei occhi non si ricordino più la dimensione del sole e che non potendomi sorreggere cedano, squagliandosi come gelato fresco.

Poi, lentamente, come lenti sono tutti i miei movimenti da quando sono uscita, lascio che un filo dello spessore di un bisbiglio di un bambino si intrometta tra il mio indice ed il medio. Il fascio di luce, battendo contro le mie ciglia e venendo da esse deviato, crea strane figure, simili ad ombre cinesi; tutto questo mi fa sorridere, mi sembro patetica.

Avanzo, sino a raggiungere il parco, del quale vi avevo parlato prima: sono vent'anni che mi reco lì, ormai lo conosco a memoria; ecco il motivo per cui tale tragitto non mi risulta arduo sebbene percorso con gli occhi serrati. Con l'altro braccio, con l'altra mano, mi palpo ansiosamente il petto, nella regione che ospita il cuore, come a prevedere quale sarà la reazione di esso alla vita che mi risulta estranea, a causa della reclusione passata. Dopo un po' mi rilasso, sciogliendomi e congedando la mia mano dall'assillante compito di controllare il mio pericardio. Giungo nel parco, e me ne accorgo sbattendo, urtando con veemenza non desiderata contro il cancello: sorrido nell'incontrare un ferro conosciuto, a me quasi amico. Lo apro con la mano libera e mi reco verso lo scivolo, patria nella mia fanciullezza di giochi e di sogni; appoggio quindi la schiena contro la superfice nota e mi lascio andare con i capelli lunghi fra le sue braccia materne, il tutto con ancora gli occhi difesi dalla mia mano, la quale lentamente comincia a percepire un sintomo di intorpidimento. I capelli si incastrano in una fessura dello scivolo, ma decido di omettere quel piccolo dolore al mio cervello, oppure è esattamente il contrario: il mio cervello, oberato di emozioni nuove e contrastanti, decide di omettere quel fastidio a me: lo ringrazio per questo.

I sette raccontiWhere stories live. Discover now