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Brevi note: questa è Prométhée - o meglio, la versione ziam di una storia che all'inizio aveva altri personaggi. L'ho scritta un paio d'anni fa, quando sono rimasta folgorata dal simbolismo francese. Non sarà lunga - sono dieci capitoletti in totale, che posterò ogni mercoledì e ogni sabato - e sull'esito non faccio spoiler. Spero vi incuriosisca, vi piaccia o - perché no? - magari vi disgusti anche; per qualsiasi reazione, mi trovate praticamente ovunque, qui, su Efp (stesso nick), su Twitter (unpopizia).

Grazie a chiunque darà un'occhiata.

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CAPITOLO I

Prométhée


«[...] du jour où il sut lire il fut Poète, et dès lors il appartint à la race toujours maudite par les puissances de la terre.»

«[...] dal giorno in cui egli seppe leggere fu Poeta, e da allora appartenne alla razza sempre maledetta dalle potenze della terra.»


Si firmava Prométhée.

Perché la realtà era per lui una fitta rete di simboli e corrispondenze da svelare, da rivelare a chi rifiutava di analizzare fino in fondo ogni elemento che si mostrava allo sguardo.
Perché Prometeo aveva rubato il fuoco agli dei per portarlo tra gli uomini, così come lui, poeta nella tensione perpetua tra spleen e ideale, si impegnava a illustrare agli altri la vera natura di ogni cosa attraverso i suoi liberi versi.
Si firmava Prométhée, ma sua madre gli aveva dato il nome di Zayn venticinque anni prima.
Era arrivato a Parigi da un paio di mesi, poco dopo essere venuto a conoscenza della raccolta di componimenti di Baudelaire e averla letta in lingua originale.
Andare via da Londra non era stato difficile né doloroso: il rifiuto disgustato che lo animava aveva cicatrizzato la distanza dall'unica donna che avesse mai amato. Dapprima Milano, nei sobborghi abitati dai reietti e dagli scapigliati, a vivere con loro, ad accostarsi a pensieri diversi ma comuni, a scrivere audaci e incomprese metafore, a soccombere al tedio cercando tuttavia la bellezza nel disordine di una vita al limite; poi la Francia, Montmartre, un disastro ancora più grande.
Nato borghese, maturato barbone.
Agitato da uno spirito anticonformista e imbevuto di sete di lotta. Mirava all'autodistruzione per incontrare l'ideale, il fiore non macchiato dal male, e scriveva, dettava il suo languore a colpi di metrica violata.
Scriveva su un quaderno che gli aveva regalato un giovane attore fiorentino che si era innamorato di lui dopo una notte passata a lacerarsi sotto le sue spinte e suoi graffi crudeli, affamati, avidi. Non gl'importava, in realtà, molto di quel ragazzetto, ma desiderava che i suoi versi restassero nel tempo, a imperitura memoria, e non sarebbe certamente successo se avesse impresso se stesso sulla sua pelle. Perché il suo cadavere se ne sarebbe andato con lui sotto terra, e nessuno avrebbe mai potuto conoscere la sua verità.
Si firmava Prométhée perché l'aveva letto su un testo di Rimbaud, morto appena un anno prima che lui arrivasse a Parigi, e il confronto gli era parso così affascinante da volersene impossessare in qualche modo.
Progettava di terminare quel suo quaderno e poi consegnarlo a Verlaine, che avrebbe sicuramente pubblicato un'altra raccolta di poeti maledetti rendendolo il famoso profeta che sapeva di essere. Non l'aveva mai visto da quando soggiornava a Montmartre per la verità, ma era fiducioso: prima o poi anche lui avrebbe conosciuto il maestro.
Era nato lo stesso anno della morte di Baudelaire: un segno, a suo parere. Avrebbe definitamente risolto la tensione offrendo al mondo il rimedio per l'incomprensione, perché il vero erede del padre della poesia era lui.

I clochard lo chiamavano Prométhée perché era stato lui a comandarlo. Trascorreva molto tempo con loro, tra bicchieri di assenzio e sesso violento.
Era bello Prométhée, tanto bello quanto maledetto, imprigionato in una vita di pregiato scandalo, di abuso e dipendenze.
Frequentava assiduamente il Moulin Rouge e tutte le prostitute che vi lavoravano, offrendo macabri componimenti in cambio del caldo di anche sinuose. Anche lì era noto con il nome di Prométhée, perché era stato lui a comandarlo.
Gli era capitato in più di un'occasione di incrociare proprio lì l'artista Toulouse-Lautrec, che cercava conforto nella tana delle emarginate, eppure non gli aveva mai rivolto la parola. Gli sarebbe piaciuto conoscere più da vicino la sua arte, ma si era sempre sottratto, come intimidito dalla deforme natura di quell'uomo.
Trascorreva le giornate a vagabondare tra i boulevard, a sedurre attricette e ragazzotti di piacevole aspetto con la sua retorica e a immergersi con loro nell'immensità della sua maledizione, tra il sapore dell'assenzio e il profumo della droga. Quando calava il sole, poi, si ritirava nella stanza di un bordello che lo aveva accolto in cambio del godimento gratuito di Madame Dubois, una trentasettenne che si occupava delle giovani prostitute, e lì riposava, dopo aver pagato il suo fisico saldo notturno.
Era un abile suonatore di pianoforte, e spesso intratteneva le ragazze esibendosi per loro, che gli facevano i complimenti e lo chiamavano Énorme Prométhée.
Disdegnava ogni cosa, eppure resisteva, in attesa del congiungimento con un ideale ancora soltanto pensato.

Si firmava Prométhée.
E così si presentò al volto sconosciuto in cui si imbatté quella sera di novembre.
Si dimostrò affabile perché pungolato dalla bellezza di quel giovane uomo che gustava, da solo davanti a uno specchio opaco in uno sporco locale di Montmartre, un bicchiere di assenzio.
Si disse Prometeo, estendendo il paragone anche alla condanna.
Prométhée perché aveva rubato agli dei il fuoco per portarlo fra gli uomini.
Prométhée perché la pena era arrivata: divorato all'interno per morire e rinascere ogni giorno. Innamorato.

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