VII

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CAPITOLO VII

Le portrait


«De ces grands yeux si fervents et si tendres,
de cette bouche où mon cœur se noya,

de ces baisers puissants comme un dictame,
de ces transports plus vifs que des rayons,
que reste-t-il? C'est affreux, ô mon âme!
Rien qu'un dessin fort pâle, aux trois crayons,

qui, comme moi, meurt dans la solitude,
et que le Temps, injurieux vieillard,
chaque jour frotte avec son aile rude...

Noir assassin de la Vie et de l'Art,
tu ne tueras jamais dans ma mémoire
celle qui fut mon plaisir et ma gloire!»

«Che spavento, anima mia! Che resta
di quei grandi occhi così ferventi e teneri,

di quella bocca dove affogò il mio cuore,
di quei baci potenti come dittamo,
di quelle ebbrezze più vive dei raggi?
Solo un disegno smorto, a tre colori,

che muore come me di solitudine
e che l'oltraggioso vecchio Tempo
sfiora ogni giorno con la rude ala...

Ma mai mi ucciderai nella memoria
quella che fu per me piacere e gloria,
o nero assassino dell'Arte e della Vita!»


La scorsa notte l'ho sognato. Sorrideva d'una macabra allegria, di fronte al mio sguardo spaventato e incredulo. Indossava gli abiti che gli vidi addosso l'ultima volta, quelli scuri e malandati che si ostinava a indossare nonostante fossero quasi degli stracci.
Gli occhi dorati sembravano penetrarmi e condurmi al ricordo del mio estremo gesto, come per farmi tornare a galla il senso di colpa e impedirmi la totale redenzione.

Sono l'impero alla fine della decadenza, ormai.
Lo diceva uno come lui, il lui dell'Arte poetica.
Non me l'aspetto una rinascita, una redenzione. Non l'ho mai nemmeno sperata, fin da subito cosciente della pesantezza della colpa della quale m'ero macchiato. Sapevo di non essere nella giusta condizione per azzardare una richiesta così spregiudicata: la mia speranza l'uccisi io.

Lo sognai per molte notti. Nei miei ultimi giorni a Parigi, soprattutto, mi pareva d'averlo ancora accanto, colpevole quell'amore cieco che fin dalla prima volta m'aveva intessuto a lui.
Sognai altre vite, altri primi incontri.
Sognai di conoscerlo in altre vesti, in epoche e strade che non erano maledette da una condizione di intransigente rifiuto, e fu sempre così bello che mi pentii ogni mattina, a ogni risveglio.
Una volta sognai di vederlo nascondersi al fianco di Ulisse nell'ingannevole dono: era bello nella sua armatura, più forte di Achille, il vero kalòs kai agathòs. E poi combatteva con coraggio, guardando in viso la morte e sfidandola e sussurrandole di non aver paura, d'esser pronto a qualsiasi cosa.
Lo amai di più dopo quel sogno. E lo amai di più dopo ogni notte che passammo distanti: io ancora a Montmartre, lui disperso in una qualche consistenza diversa.
Tante volte mi domandai dove vagasse il suo cuore maledetto, e tante volte fui sul punto di provocarmi del male fisico per tentare di fermare l'atroce sofferenza che quei pensieri generavano in me. Seppi d'esser stato veleno e cura per lui, solo veleno per me.
Sputai sangue in quella stanza. Madame Leroy mi fu accanto per quanto glielo concessi; mi chiese spesso perché Prométhée fosse sparito, e io, nella mia permanente condizione d'ubriachezza disperata, non le diedi mai una risposta vera. Smise di fare domande quando mi vide andar via da Parigi.
Non seppi più nulla di lei. Chissà se la sua pensione è ancora in piedi dopo cinque anni, chissà se cerca ancora uomini che la facciano sentire donna.
Bevo più assenzio da quando sono a Londra, la sua città. Forse perché ho visto sua madre, forse perché vorrei dimenticare, forse perché so che, bevendo fino all'incoscienza, ricorderei ancora di più. Forse per dimenticare scrivo, per rendere conto alla mia persona d'essere ancora vivo, ancora qui, su questa terra.
Mi piacerebbe poter dire d'aver fatto quel che ho fatto perché imbevuto dall'ebbrezza che quel sapore sapeva e sa ancora darmi. Ma non andò così. Avevo bevuto, è vero, ma ero ancora cosciente a me stesso.
La maggior parte del liquido quella notte finì a terra. Asciugai tutto con una giacca e, quando mi sembrò tardi abbastanza, uscii dalla pensione per liberarmi d'ogni cosa.
Resistetti una settimana. Poi capii di dover andare.
Arrivai a Londra senza ricordare che fosse casa sua. Vidi e vedo ancora la sua bellezza, e mi stupisco di fronte alla sua storia. Quest'aria m'ha ispirato qualche verso a esser sincero, ma ricordo ancora le sue parole: non sono adatto a far poesia.

Ci sono notti in cui non riesco a prender sonno: capita quando incontro sua madre che mi domanda di lui. La menzogna che le offro mi presenta il conto quando calano le tenebre.
"L'ho conosciuto", le dissi la prima volta, "sei anni fa. A Parigi era molto apprezzato, aveva un gran pubblico."
"E adesso? Adesso che fa?"
Alzai le spalle confidandole una bugia: "Non so più nulla di lui."

Viene a trovarmi qualche volta, mi chiede perché, se è così famoso, non ha mai sentito pronunciare il suo nome dai letterati, dagli intellettuali, da quelli che scrivono e scrivono bene.
"Gli piace firmarsi con nomi diversi", le dico.
Preferisco non farle sapere che in realtà la firma è sempre una: dovrei darle spiegazioni, parlarle di un pensiero che sono sicuro non comprenderebbe. Allora taccio. Taccio in nome del mio amore per lui e del suo amore per me e per l'arte che gli era vita.
Taccio perché non son degno di macchiare la bellezza con la mia voce da Giuda.
Racconto una realtà che non fu mai. Quella che fu la tengo per me, per ricordare quel che ho perso e che non riavrò mai più.

Non versai nemmeno una lacrima quella notte. Però quella bottiglia di assenzio l'ho portata con me: sembra scrutarmi e dirmi che c'era anche lei, che il mio segreto lo conosce e lo tiene fra i cocci riuniti.
Piansi nelle notti seguenti, quando la mancanza si fece sentire così acuta da farmi desiderare d'esser morto.
Piansi guardando e accarezzando il suo volto di carta, impresso in una fotografia senza tempo che ci vede insieme per l'eternità. Ci fu scattata da un fotografo famoso che conosceva e apprezzava i versi di Prométhée: diceva di averli sentiti per strada, di averli letti sui volti e sui dipinti di artisti maledetti come lui. Ci disse di volerli leggere dal suo quaderno, quello che ha lasciato a me, ma lui non glielo permise: sarebbero stati pubblicati in futuro, e lui sarebbe diventato famoso.
Sorridevamo. E sembravamo felici.
La teneva lui, nel taschino della sua camicia.
Quella notte me ne appropriai io.
Si porta addosso tre colori soltanto, quelli che raccontano di noi, di tutto quello che successe in quell'istante.

Quell'istantanea è la mia coscienza. Mi ricorda di aver ucciso non solo la speranza, ma anche l'Arte e la Vita.
La mia speranza.
La sua arte.
La nostra vita.

ProméthéeWhere stories live. Discover now