Uscita la madre dalla camera, Elisabetta tornò ai suoi pensieri.
Non le sembrava vero di essere a casa: pensava di essere in un sogno che la toccasse realmente. Era contenta di vedere che la madre stava bene, di poter parlare con lei dopo tanto tempo come facevano una volta, di poter finalmente riabbracciare la sua famiglia e di notare che tutto era come l'aveva lasciato. Eppure c' era qualcosa che la turbava. Non si sentiva del tutto tranquilla: da quando aveva messo piede fuori dal treno, un senso di oppressione nello stomaco non l' aveva abbandonata. Sembrava che tutto intorno a lei fosse sospeso in una calma apparente e il tutto era nell'attesa che succedesse qualcosa. Un qualcosa di imprevedibile e inimmaginabile. Qualcosa di sconvolgente? Di entusiasmante? Di orrifico?

Non sapeva ancora se era stata una buona idea tornare a casa. Aveva meditato molto sul suo possibile ritorno; poi quel lunedì mattina si era ritrovata a comprare il biglietto del treno, quasi inconsapevolmente. Si era lasciata trasportare da quello che faceva il corpo, assecondando i suoi movimenti e con gesto meccanico aveva preso quel biglietto, per quello stesso venerdì. Poi si era ritrovata sul treno. Si era resa conto di quello che stava realmente facendo solo una volta seduta sul sedile, mentre vedeva Roma allontanarsi sempre di più e il treno che prendeva velocità. In quel momento aveva realizzato di non poter tornare indietro e di non poter ripensarci. Ormai quel che era fatto, era fatto. Appena concepito questo pensiero, un sospiro di rassegnazione le era uscito dalla bocca, lasciando se stessa a quello che le avrebbe riserbato il destino.
Si era guardata intorno: non c'erano molti altri passeggeri nella sua carrozza. Due signori in giacca e cravatta, seduti nella fila di posti accanto, stavano parlando animatamente: si erano incontrati sul treno casualmente e, ritrovatisi, probabilmente si stavano aggiornando sulle vicende che li vedevano coinvolti oppure chissà cos'altro. C'era una signora seduta qualche fila più avanti, ma di cui si vedeva solo il buffo cappello che indossava sulla testa e parlava al telefono a voce alta. Dietro c'erano una madre e un figlioletto; il piccolo stava dormendo, con la testa poggiata sulla spalla della mamma, che intanto dolcemente lo accarezzava e guardava qualcosa sul telefono. Un ragazzo, li accanto, era concentrato a leggere un libro.
Poi c'era Betta che, con le cuffiette alle orecchie, guardava ora fuori dal finestrino, come in cerca di qualcosa.
Questi erano i protagonisti della carrozza n. 7, compagni sconosciuti di un viaggio qualunque, in un giorno qualunque, di un anno qualunque. Chissà se un giorno si sarebbero rivisti per caso in qualche parte del mondo, magari proprio su quella stessa carrozza.
Più il tempo passava, più a Betta batteva forte il cuore, consapevole di starsi avvicinando sempre di più ad Arezzo, casa sua. Dopo due mesi di assenza.
Due mesi.
In realtà, non si era accorta delle settimane che passavano una dopo l'altra, fino ad arrivare a quei due mesi. Forse, non ci aveva nemmeno fatto caso perché non aveva fretta di tornare e si era distratta con gli esami e con questa nuova vita da universitaria, che la teneva occupata e la entusiasmava. Anzi sicuramente era andata così. E la sua intenzione era quella di tornare non prima delle vacanze pasquali.
Invece però eccola lì, in camera sua, un weekend di marzo.
Mentre si guardava allo specchio ragionava ancora sul perché fosse tornata. Voleva lasciarsi alle spalle la sua vita di prima che partisse. Non voleva tornare a immergersi in quel passato, in quella città che aveva lasciato così volentieri, in quel luogo che l'aveva tanto turbata, con quelle persone.
Eppure eccola lì, seduta davanti alla scrivania, in attesa di qualcosa. Qualsiasi cosa.

PianoOpowieści tętniące życiem. Odkryj je teraz