♡ Prologo ♡

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Arion aveva imparato presto a non farsi trasportare dalle emozioni, fin da quando, durante gli anni della sua formazione medica, aveva dovuto dissezionare cadaveri e mantenere il sangue freddo di fronte alle più raccapriccianti e rivoltanti scene che si presentavano sotto il suo esame.

Era solo un infermiere, quello che si sarebbe detto una "crocerossina"; un lavoro di solito reputato da donna, soprattutto dalle parti in cui era cresciuto lui, una realtà chiusa e ottusa dove l'unico modo in cui si poteva uscire dagli schemi preimpostati dalla propria famiglia era studiare, intraprendendo però una strada inaspettata.

Così era stato che Arion Sherwind era riuscito a sfuggire al matrimonio; a soli diciotto anni avrebbe già dovuto avere affianco a sé una moglie, possibilmente incinta, con almeno metà dell'azienda di famiglia sulle spalle ed i cinquant'anni a seguire già spianati, decisi.

Ma Arion, come si è già detto, aveva deciso di deviare su un'altra strada; e la devianza, intesa in tutti i suoi significati, fin dai primi anni in cui la coscienza dentro di sé aveva cominciato a farsi sentire, era sempre stata la forza segreta che gli aveva permesso di non impazzire.

Arion lo sapeva, tutti sono potenzialmente pazzi, psicopatici, anche se non lo si vuole ammettere; alcuni fingono semplicemente di volere quello che la vita ha deciso per loro, altri hanno la forza di ribellarsi; la differenza fra i due sta nel pericolo, per i primi, di lasciarsi andare prima o poi alla pazzia, come forma di sfogo dei sentimenti repressi a forza dentro di sé.

Chi si ribella invece, come Arion, ha come ricompensa il pieno possesso della propria vita, la libertà di scegliere per sé quando, come e se sbagliare.

La libertà di essere felice.

Certo, felicità è una parola grossa, Arion non si poteva di certo definire felice: lavorava da un paio d'anni in una clinica psichiatrica ai piedi delle Alpi Svizzere, aveva a che fare quotidianamente con soggetti tutt'altro che felici o soddisfatti.

Eppure aiutare le persone, seppur in maniera minima come era possibile farlo nella prima metà del ventesimo secolo, lo rendeva in qualche modo contento, lo faceva sentire, in una certa maniera, utile agli altri.

Certo era che i momenti felici, quelli che lo rendevano soddisfatto -come il sorriso di un paziente, un grazie sussurrato di cuore per una parola dolce in più, uno sguardo colmo di riconoscenza- erano molto molto pochi, rispetto ai momenti d'angoscia che lo costringevano a mettere un freno alle sue emozioni, obbligandolo a diventare di ghiaccio: una cura debilitante per un paziente senza speranza, una seduta particolarmente devastante, metodi alternativi al limite dell'umano.

Non poteva permettere al suo cuore di patire per ognuna delle terribili scene che gli si presentavano sotto gli occhi; aveva imparato a non farsi toccare più, come quando tagliava freddamente i cadaveri per studiarne l'anatomia, all'accademia di medicina.

Quel giorno però, quella fredda giornata d'Ottobre, nella mattina di un giorno nuvoloso, ventoso, fra le foglie svolazzanti giunse un'auto nel parcheggio della clinica, dalla quale venne portato fuori un ragazzo che, inaspettatamente, smosse l'animo apparentemente arido del giovane Arion.

Quel ragazzo era distrutto, annientato da un dolore che gli si leggeva negli occhi.

Seguiva gli infermieri come se fossero stati i suoi aguzzini; aveva una camicia di forza indosso, il che suggeriva il suo grado di pericolosità.

Era forse un assassino? Per Arion era naturale domandarselo, per lui era necessario conoscere la storia di ogni singolo paziente, dopotutto avrebbe dovuto averci a che fare da vicino, voleva sapere con quali tipo di criminali -o incompresi- avrebbe dovuto venire in contatto.

La mia cura [Kyouten]Where stories live. Discover now