6 Capitolo (2^parte)

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«Avresti dovuto dirmelo subito.» La mamma mi accarezzò la testa.
«Hai corso troppi pericoli.»
«Avrei voluto farlo, ma tu hai detto che abbiamo tutti troppa immaginazione.»
«Non mi riferivo a te... non avevi la benché minima preparazione. Mi rincresce tanto.»
«Non è colpa tua, mamma! Nessuno poteva saperlo.»
«Io sì», disse la mamma. Dopo una breve pausa impacciata, aggiunse: «Sei nata lo stesso giorno di Charlotte».
«Non è vero! Io sono nata l’8 ottobre e lei il 7.»
«Anche tu sei nata il 7 ottobre, Gwendolyn.»
Non credevo alle sue parole. La fissai allibita.
«Ho mentito sulla tua data di nascita», spiegò la mamma. «Non è stato difficile. Sei nata in casa e la levatrice che ha redatto il
certificato di nascita è venuta incontro al nostro desiderio.»
«Ma perché?»
«Volevamo proteggerti, tesoro.»
Io continuavo a non capire. «Proteggermi? Da che cosa? Tanto adesso è successo.»
«Noi... io volevo che tu avessi un’infanzia normale. Un’infanzia spensierata.» La mamma mi rivolse un’occhiata penetrante. «E poi avrebbe potuto darsi che non avessi ereditato il gene.»
«Pur essendo nata il giorno esatto calcolato da Newton? »
«Come ben sai la speranza è l’ultima a morire», ribatté la mamma.
«E poi piantala con la storia di Isaac Newton. Lui è solo uno dei tanti che si occuparono della cosa. La faccenda è molto più grande di quanto tu possa immaginare. Molto più grande, più antica e più potente. E più pericolosa. Volevo tenertene fuori.»
«Da che cosa, si può sapere?»
La mamma sospirò. «Sono stata una sciocca. Avrei dovuto immaginarlo. Perdonami, ti prego.»«Mamma!» Il groppo in gola mi impediva quasi di parlare. «Non capisco niente di quello che stai dicendo.» A ogni sua frase la mia confusione e la mia disperazione crescevano un pochino. «So solo che mi succede qualcosa che non dovrebbe accadere. E questo mi rompe! Ogni paio d’ore mi sento mancare e mi ritrovo in un’altra epoca. Non so come evitarlo.» «Proprio per questo stiamo andando da loro», disse la mamma.
Mi resi conto che la mia disperazione la faceva soffrire. Non l’avevo mai vista così preoccupata.
«Chi sono loro...?»
«I Guardiani», rispose la mamma. «Un’antichissima società segreta,
denominata anche ‘Loggia del conte di Saint Germain’.» Guardò fuori dal finestrino. «Siamo arrivati. »
«Una loggia segreta! Vuoi portarmi da una setta di dubbia reputazione? Mamma!»
«Non è una setta. Di dubbia reputazione però lo sono sicuramente.» La mamma fece un profondo respiro e socchiuse gli occhi. «Tuo nonno faceva parte di questa loggia», proseguì. «E prima di lui anche suo padre e suo nonno. Anche Isaac Newton ne era
membro, al pari di Wellington, Klaproth, von Arneth, Hahnemann, Karl von Hessen-Kassel e naturalmente tutti i de Villiers e molti, molti altri... tua nonna sostiene che persino Churchill e Einstein
appartenessero alla loggia.»
La maggior parte di quei nomi non mi diceva proprio un bel niente. «Si può sapere che cosa fanno?»
«Ecco... già», disse la mamma. «Si occupano di miti antichissimi. E di tempo. E di persone come te.»
«Ne esistono molti come me?»
La mamma scrollò la testa. «Soltanto dodici. E la maggior parte di loro è morta da tempo.» Il taxi si fermò e il vetro divisorio scese. La mamma pagò il tassista
lasciandogli il resto di mancia.
«Che cosa siamo venute a fare qui, esattamente?» domandai una volta scese sul marciapiede, mentre il taxi si allontanava. Avevamopercorso lo Strand, fermandoci poco prima di Fleet Street. Intorno a noi brulicava il traffico cittadino, una folla di gente occupava i marciapiedi. I caffè e i ristoranti sul lato opposto erano strapieni, due autobus rossi a due piani che offrivano il giro turistico della città erano fermi poco più avanti e i turisti al piano superiore
fotografavano il monumentale complesso della Royal Court of Justice.
«Passando in mezzo a quelle case si entra nel quartiere di Temple.» La mamma mi scostò i capelli dal viso. Guardai verso lo stretto passaggio pedonale che mi stava
mostrando. Non ricordavo di averlo mai percorso. La mamma doveva aver notato la mia espressione perplessa.
«Non sei mai stata a Temple con la scuola?» mi chiese. «La chiesa e i giardini sono un vero gioiello. E anche Fountain’s Court. Per me è la fontana più bella di tutta la città.»
Le scoccai un’occhiata risentita. Adesso si era trasformata all’improvviso in una guida turistica?
«Vieni, dobbiamo attraversare», disse prendendomi per mano. Ci accodammo a un gruppo di chiassosi turisti giapponesi, dotati
ciascuno di un’enorme piantina della città.
Superato il passaggio pedonale tra le case, si entrava in un altro mondo. La frenetica attività dello Strand e di Fleet Street era
scomparsa all’improvviso. Qui, tra i maestosi edifici senza tempo addossati l’uno all’altro, regnavano la pace e la quiete.
Indicai il gruppo di turisti. «Che cosa stanno cercando? La fontana più bella della città?»
«Andranno a visitare la chiesa di Temple», rispose la mamma ignorando il mio tono risentito. «È molto antica, è legata a molte
leggende e miti. Ai giapponesi piace. E al teatro di Middle Temple Hall fu rappresentato per la prima volta Come vi piace di Shakespeare.»
Per un po’ seguimmo i giapponesi, poi girammo a sinistra e percorremmo un vicolo lastricato tra le case. L’atmosfera era quasi
idilliaca, con tanto di uccelli che cinguettavano, api che ronzavano,
aiuole traboccanti di fiori; persino l’aria sapeva di fresco.Di fianco ai portoni delle case c’erano lucide targhe d’ottone con
incise lunghe file di nomi. «Sono tutti avvocati. Docenti dell’istituto di scienze politiche», spiegò la mamma. «Non oso neppure pensare quanto costi l’affitto
di uno studio in questo quartiere.»
«Nemmeno io», risposi offesa. Come se non avessimo avuto cose ben più importanti di cui parlare! La mamma si fermò davanti a un portone. «Siamo arrivate», disse.
Era una casa semplice che nonostante la facciata impeccabile e gli infissi tinteggiati di fresco aveva un aspetto molto antico. Cercai di leggere i nomi scritti sulla targa, ma la mamma mi spinse oltre la
porta aperta e quindi verso una scala fino al primo piano. Ci vennero incontro due signorine che ci salutarono educate.
«Dove siamo?» La mamma non rispose. Suonò un campanello, si sistemò la giacca
e si scostò i capelli dal viso.
«Non avere paura, tesoro», mi disse, ma non sapevo se parlasse con me o cercasse di convincere se stessa. La porta si aprì con un ronzio e ci trovammo in una stanza
luminosa in tutto e per tutto simile a un ufficio qualunque. Schedari, scrivania, telefono, fax, computer... persino la bionda di mezza età dietro la scrivania aveva un’aria del tutto normale. Soltanto i suoi
occhiali erano un po’ inquietanti, neri e con la montatura così grande da inghiottire metà del viso.
«Desidera?» domandò. «Oh, ma lei è Miss... Mrs Montrose?»
«Shepherd», la corresse la mamma. «Non uso più il mio nome da
ragazza. Mi sono sposata.»
«Oh sì, certo.» La donna sorrise. «Però non è cambiata affatto. Con i suoi capelli la riconoscerei sempre e ovunque. » Mi rivolse
un’occhiata fugace. «Questa è sua figlia? Somiglia tutta a suo padre, vero? Come sta...?» La mamma la interruppe. «Mrs Jenkins, devo parlare subito con
mia madre e Mr de Villiers.»
«Oh, sua madre e Mr de Villiers sono in riunione, temo. » Mrs Jenkins sorrise piena di rincrescimento. «Se volete... »
La mamma la interruppe un’altra volta. «Vorrei partecipare a questa riunione.»
«Ecco... questo... lo sa anche lei, non è possibile.»
«Allora faccia in modo che diventi possibile. Dica loro che gli porto rubino. Rosso-rubino.»
«Come, scusi? Ma...» Mrs Jenkins guardò interdetta da mia madre a me e viceversa.
«Faccia come le dico.» Non avevo mai sentito mia madre parlare con tanta determinazione. Mrs Jenkins si alzò e si allontanò dalla scrivania. Mi esaminò da
capo a piedi, e io provai un profondo imbarazzo con indosso la mia orribile uniforme scolastica. Non mi ero lavata i capelli e li avevo raccolti in una semplice coda di cavallo. E non ero nemmeno
truccata. (Mi truccavo di rado.) «Ne è proprio sicura?»
«Naturale. Secondo lei sarei venuta qui solo per fare uno stupido scherzo? Si muova, per favore, non c’è molto tempo.»
«Aspetti qui, per favore.» Mrs Jenkins si voltò e scomparve oltre una porta tra due scaffali.
«Rubino?» ripetei.
«Sì», confermò la mamma. «Ciascuno dei dodici viaggiatori nel tempo è classificato in base a una pietra preziosa. E tu sei il rubino.»
«Come fai a saperlo?»
«Opale e ambra, la prima coppia, s’avanza, canta agata, che del lupo ha sembianza, con acquamarina in si bemolle – solutio!
Seguono smeraldo e citrino – coagulatio! – le due corniole gemelle in scorpione, e giada, numero otto, digestione. In mi maggiore:
tormalina nera, zaffiro in fa, rischiara la sera. E subito appresso ecco diamante, undici e sette, leone rampante. Projectio! Scorre il tempo così lento, rubino è principio e fine del movimento.» La mamma mi
rivolse un sorriso triste. «La so ancora a memoria.» Chissà perché, la sua spiegazione mi aveva fatto venire la pelle d’oca. Non mi era sembrata tanto una poesia, quanto piuttosto una formula magica, come quelle che le streghe pronunciano nei film
quando mescolano un pentolone di un liquido verdastro.
«Che cosa significa?»
«È solo una filastrocca inventata da qualche vegliardo amante dei misteri per complicare ancora di più cose già complicate», rispose la mamma. «Dodici cifre, dodici viaggiatori nel tempo, dodici pietre preziose, dodici tonalità musicali, dodici ascendenti, dodici passi per creare la pietra filosofale...»
«La pietra filosofale? Che cosa...?» lasciai la domanda a metà e sospirai. Non ne potevo più di fare domande che non riuscivo
neppure a completare per ottenere risposte che mi lasciavano solo più all’oscuro e confusa di prima. Da parte sua la mamma non sembrava avere nessuna voglia di
rispondere. Guardò fuori dalla finestra. «Qui non è cambiato niente. È come se il tempo si fosse fermato. »
«Sei venuta spesso qui?»
«Mio padre a volte mi ci portava», disse la mamma. «Era un po’ più generoso della mamma. Anche riguardo ai segreti. Da bambina mi piaceva venire qui. E in seguito, quando Lucy...» sospirò. Ebbi un momento di incertezza, chiedendomi se fosse il caso di
domandare oppure fosse meglio lasciar perdere, poi la curiosità ebbe il sopravvento. «La prozia Maddy mi ha raccontato che anche Lucy è una viaggiatrice nel tempo. Per questo è scomparsa?»
«Sì», rispose la mamma.
«E dov’è finita?»
«Nessuno lo sa.» La mamma si passò una mano tra i capelli. Si capiva che era agitata, non l’avevo mai vista così nervosa. Se non
fossi stata tanto in ansia io stessa, avrei provato pena per lei. Rimanemmo in silenzio per qualche tempo. La mamma tornò a guardare fuori dalla finestra.
«Allora io sono un rubino», dissi poi. «Rosso-rubino, giusto?»
La mamma annuì.

Ruby RedWhere stories live. Discover now