III -Amigdala

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Amarti era la cosa più difficile che in ventidue anni avessi imparato a fare.
Sempre di fretta, impassibile, vagamente arrogante e narcisista. Cho Seoungyoun era questo e molto altro, e io, folle innamorato, ero solo folle. O innamorato.
Non sono mica sinonimi, younie?
Infondo essere innamorati comprende anche l'essere folli, quando il cuore si intromette in un rapporto, tutto va a puttane, compresa la sanità mentale, che dolente o nolente si ritrova a fare i conti con più emozioni di quante possa comprendere.
«Dove nascono le emozioni?»
ti chiesi un pomeriggio, quando ancora nudo nel mio letto fumavi indisturbato.
I capelli biondi ti solleticavano la fronte, qualche riccio era sfuggito dalla crocchia disordinata che ti eri affrettato a fare. Mi guardasti confuso, prima di indicare un punto impreciso al centro del mio petto. Scossi il capo.
«È tutto nella nostra testa.» risposi io.
«Le emozioni nascono dai circuiti nervosi che si trovano in varie parti del nostro cervello, partono soprattutto dall'amigdala.»
Le mie parole riempivano la camera, era uno dei nostri soliti momenti, con il sole a violare la nostra pelle nuda, il fumo delle tue sigarette a colorare l'aria, la tua espressione assorta, che se non ti conoscessi, avrei potuto dire tu non mi stessi ascoltando. Invece in rigoroso silenzio spegnesti la cicca ormai consumata nel posacenere sul comodino, che io nemmeno fumavo, lo sapevi, quello rimaneva lì per te.
«L'amigdala crea anche la paura.
Tu hai paura?»
Chiesi con l'espressione impassibile che eri solito indossare tu, alzando finalmente lo sguardo sul tuo viso, incastrando le nostre iridi. Mai prima dall'ora mi aveva intimorito l'idea del tuo giudizio, cosa poteva mai importarmene del tuo pensiero su di me, sui miei discorsi così maledettamente contorti? A me piaceva il tuo corpo, a te il mio.
A me piaceva stringere i tuoi fianchi prima di affogare dentro te lo stress della giornata. A te piaceva inarcare la schiena e aprire le gambe, aspettando impaziente che io potessi spogliarti dalla facciata da duro che ti eri costretto ad indossare là fuori. Il mio appartamento era la tua zona sicura, il posto in cui potevi essere te stesso, il bagno che conservava il tuo spazzolino giallo, il letto largo perché 'ho bisogno di spazio la notte'. Ma non sei mai rimasto a dormire, younie.
Non sei mai rimasto per più di un paio d'ore, non hai mai fatto la colazione con me né usato la doccia, e quello spazzolino poi, a cosa serviva? Solo a cancellare le mie tracce per la lingua curiosa che ti avrebbe accarezzato poco dopo. Dopo di me.
Rimasi immobile a fissarti per qualche minuto, pensavi stessi impazzendo eh? Probabilmente sì, probabilmente ero già perso quel pomeriggio di maggio, ancora prima di essermi perso davvero.
«Hai paura?»
Chiesi nuovamente, in attesa di quella risposta che sapevo non sarebbe stata sincera. Scuotesti la testa, non mi aspettavo lo ammettessi, non ti saresti mai permesso di provare alcuna cosa che non potessi controllare, eravamo molto simili in quello, ma tu eri più bravo, alla fine hai vinto il gioco.
«Hai la sindrome di Kluver-Bucy?»
Chiesi allora, guardandoti corrugare le sopracciglia in quell'espressione confusa che assumevi spesso quando iniziavo a fare i miei discorsi. Mi lasciai andare ad una risatina, prima di scuotere il capo e spiegare.
«È quando non provi paura, non sai riconoscerla, credi non ci sia.»
Misi in chiaro, stringendomi fra le spalle per il brivido di freddo che mi aveva attraversato la schiena. Non sentivo il bisogno di coprirmi, e neanche tu, conoscevamo così bene l'uno il corpo dell'altro, che anche coi vestiti addosso eravamo in grado di scorgere oltre, di accarezzarci la pelle solo con il pensiero, di baciarci con lo sguardo e impazzire senza amarci.
«E tu?»
Io cosa, Seoungyoun?
«Tu hai paura?»
Risi, risi a crepapelle. Mi strinsi lo stomaco e caddi di fianco contro il lenzuolo chiaro, continuai a ridere fino alle lacrime, poi singhiozzai, poi mi coprí il viso, poi capì che era arrivata la fine.
«Ho paura di tante cose, lo sai, mi fa paura l'altezza. E anche il buio, sono così spaventato dal buio. E mi terrorizza l'idea di impazzire, di non avere il controllo, come sarebbe la mia vita senza controllo?»
Alzasti le spalle, ancora stranito dai miei occhi lucidi e dalle lacrime che avevano cominciato a bagnarmi le guance piene.
«perchè piangi, hanse?»
Perché piango, younie? Non lo so, o forse lo so ma ci sono così tanti motivi per cui lo sto facendo che sceglierne uno sarebbe così tremendamente sbagliato.
«ho paura.»
Risposi allora, guardandoti subito dopo aprire le braccia e farmi segno di accomodarmicisi. Avrei potuto lasciarmi stringere, con la tua pelle sulla mia era tutto più facile, ma non volevo, non potevo salire un altro gradino su quella scala che mi avrebbe portato alla follia. Non avevo mentito, la mia più grande paura era quella di perdere lucidità, di impazzire, e accanto a te poteva finire solo così. Era una partita persa da tempo, per me, era un gioco con due semplici regole: niente cuore, niente sentimenti. Quando tutto era cominciato, quasi un anno prima, eravamo entrambi consapevoli che il nostro rapporto non potesse essere più di quello, fra amplessi violenti e baci bagnati, ansimi mal trattenuti e orgasmi negati. Eri stato chiaro fin da subito, avevi una ragazza, dovevi avere una ragazza, e io ero solo quello che ti scopava, che ti svuotava le palle.
Ma ci hai mai pensato davvero a noi due? Al nostro rapporto?
Se non ci fossero stati sentimenti, Hyung, te ne saresti andato subito dopo aver finito. Avresti preso i tuoi vestiti e li avresti indossati di fretta, privandomi dell'eterea vista del tuo petto nudo. Non avresti ascoltato i miei lunghi monologhi, non mi avresti baciato sul ciglio della porta prima di andartene, non saresti corso da me ogni qualvolta le cose si mettevano male.
Scossi il capo, ti guardai mentre ancora aspettavi a braccia aperte che mi avvicinassi, e la mia espressione si fece più seria, allora capisti anche tu, o magari lo sapevi già.
«Ricordi quando abbiamo iniziato?»
Una risatina mi sfuggì dalle labbra al solo pensiero.
«Tra qualche mese credo sia un anno, da tutto questo. Siamo partiti con la stessa idea, con delle regole ben precise, ci mancava poco le scrivessimo su un contratto. Tu stai con Herin, dici di volerla davvero, me lo hai detto anche dopo la prima volta in cui siamo stati insieme. Fra noi era ed è solo sesso, tu soddisfi me e io soddisfo te-»
Mi interrompesti prima che potessi dire altro, alzandoti dal letto, ancora nudo, e iniziasti a camminare per la stanza. Ti era sempre piaciuto il mio parquet scuro, e anche la parete in vetro, potevamo osservare il parco tutto il giorno e nessuno avrebbe potuto vederci oltre quella lastra spessa. 'È come quello delle stazioni di polizia?' mi chiedesti una volta, e io risi perché sì, Seoungyoun, è come quello delle stazioni di polizia.
«Siamo amici, non scopiamo e basta.»
Mettesti in chiaro, decidendo di smetterla di consumare il legno sotto i nostri piedi. Sembravi infastidito, lo vedevo il modo in cui desiderassi chiudere quel discorso il prima possibile, ti stavi trattenendo dall'imporre la tua visione delle cose, e non potevo certo biasimarti. Starti accanto comprendeva anche quello, accettare il tuo lato presuntuoso, il tuo pessimo modo di esprimere la tua visione delle cose. A volte sembravi non accettare l'idea che ci fosse un altro punto di vista, altri sentimenti, e lo stavi facendo anche in quel momento.
Sapevi bene quale fosse il fine di quella conversazione, sapevi dove volevo andare a parare, e probabilmente più di quello ti urtava il fatto che non lo dicessi chiaramente, ci saremmo risparmiati quel magone e il nodo allo stomaco.
«Siamo amici e scopiamo anche.»
Ribadisti.
«Siamo diventati amici perché scopavamo.»
Controbattei.
«Non vuoi più scopare?»
Chiedesti allora, fermandoti difronte a me. Era difficile parlare con il tuo sguardo addosso, sempre attento e criptico, non riuscivo mai a capire se stessi andando bene o se dovessi fermarmi, non una singola espressione, né di disgusto né di approvazione.
«Non voglio più esserti amico.»
E mi toccò abbassare lo sguardo, perchè non era ciò che volevo dire, non volevo rinunciare a noi e al nostro rapporto, ma non potevo permetterti di buttarmi giù con un rifiuto, un "no" ornato da scuse e giustificazioni di cui ero abbondantemente pieno. A volte volevo gridarti in faccia di smetterla, volevo ricordarti che la nostra vita non è un kdrama strappalacrime né un libro sull'amore impossibile. Questa è la vita reale, e difronte a due scelte, non puoi prendere quella che ti renderà infelice per sempre.
«Che cazzo stai dicendo?»
Ma io la tua rabbia non l'avevo tenuta in conto, così indietreggiai appena, alzando il viso verso il tuo, adesso finalmente tinto di emozione.
«Davvero Hanse, spiegami che ti prende, perchè non lo capisco.»
Ti avvicinasti sempre di più, salendo sul letto con le ginocchia e cominciando a gattonarmi incontro, lo sapevo che volevi fare. Un brivido mi percorse la schiena, mentre tutto il corpo si copriva di pelle d'oca. Mi piaceva il tuo tocco, mi piaceva da morire.
«Sono sicuro ti mancherei.»
Mormorasti lascivo vicino al mio lobo, prima di sederti sulle mie gambe. Le nostre intimità ancora spoglie, così vicine, come avrei potuto rifiutarti adesso?
Annuii, portando subito dopo le braccia a cingerti la schiena. Un bacio umido sul collo, due, tre, qualche morso, poi la mandibola, la guancia, e quando arrivasti alle labbra, il mio sesso era duro contro la tua coscia.
La stanza iniziò a riempirsi di schiocchi osceni, la nostra saliva si mischiava e talvolta la vedevo sfuggire dalle tue labbra, così lucide e gonfie da poter immaginare solo una cosa. Ormai anche tu eri duro per me, eccitato e bramoso di esser preso, scopato, forse in cerca della perdizione, di quell'attimo di follia in cui l'orgasmo giunge e il corpo si tende, quando le tue labbra si schiudono e lasciano uscire quell'ansimo roco e dannatamente perfetto. Quella era la chiave per il mio paradiso, perché solo tu potevi portarmi al limite.
Ancora sopra di me, decidesti di prendere il controllo, iniziando a leccarmi le labbra mentre lentamente accompagnavi il mio corpo a stendersi. Guardarti dal basso era davvero stupendo, ma soprattutto lo era averti sopra di me.
«Quanto mi mancherai?»
Chiesi allora, in un sussurro eccitato.
Tu sorridesti lascivo, prima di fare un passo indietro e sederti fra le mie gambe aperte, guardavi la mia erezione con l'acquolina in bocca, la volevi dentro di te, mi volevi dentro di te.
La prima lappata mi fece tremare, così portai le mani a stringere il lenzuolo. La seconda mi fece ansimare e chiudere gli occhi. Dopo la terza, semplicemente non capì più nulla.
«Oh y-younie!»
Quasi miagolai il tuo nome, portando una mano dietro il tuo capo, iniziando a spingerti il viso contro il pube. Mi predevi tutto, fino in gola, emettevi quei suoni così volgari che mi facevano impazzire.
«Cosí, cosí»
Ti costrinsi a rimanere giù nonostante ti mancasse il respiro, prendendo a scoparti la bocca con più enfasi del dovuto. Ma tu eri abituato, la tua gola era fatta per me, la tua lingua, i denti, tutto di te era fatto per potermi prendere. E mentre ti vedevo ingoiare il mio piacere, non potevo che pensare a quanto fossi stato bravo a manipolarmi ancora una volta.
Ti staccasti da me con un sonoro schiocco, le labbra ancora sporche di seme e le lacrime agli occhi, dio quanto eri bello.
«Ora voglio la mia parte.»
Maledetto perverso, pensai, quando senza darmi un bacio ti girasti velocemente.
Un ghigno mi illuminò il viso, scorgendo dal basso il tuo sedere tondo, quasi femminile.
«Il mio hyung non riesce più ad aspettare?»
Chiesi con le labbra sulla tua pelle, iniziando a marchiare la tua schiena. Non volevi lo facessi, quella che ti ostinavi a chiamare fidanzata, poteva scoprirci, ma a quel punto non mi importava più. Avresti dovuto aprire gli occhi, capire di appartenermi, lasciarti amare oltre che fottere. Volevo impazzissi con me, e sapevo come fare.
Non durai molto nel masturbarti, non riuscivo ad avere il tuo corpo così vicino senza poterne usufruire, così quando constatai che fossi abbastanza eccitato, mi tirai indietro, sputandomi sulla mano per inumidirmi.
«Apri le gambe piccolo.»
Ti suggerii, arpionando i tuoi fianchi e posizionandomi contro la tua apertura. Ti avrei fatto sentire quanto tutto quello sarebbe mancato a te, non a me.
«H-hanse!»
Mai il mio nome era stato una melodia così eccelsa.
Cominciai a spingere senza darti alcun tempo, stringevo la tua pelle così forte da sentire le ossa contro le dita, e non mi fermavo, ti chiedevo di gridare ancora e ancora, volevo sentire il mio nome fuoriuscire dalle tue labbra, volevo che venissi con il mio nome impastato in bocca.
«Grida il mio nome Seoungyoun, avanti.»
Chiesi per l'ultima volta, sentendoti stringere attorno a me. Un ultimo affondo, ti vidi inclinare la schiena e poi finalmente ti sentii gridare.
Per qualche minuto restammo in silenzio, tu cedetti sulle lenzuola e io mi sdraiai, sovrastimolato e dolorante, ma con la soddisfazione a riempirmi il petto.
«Volevi rinunciare a tutto questo?»
Sussurrasti ancora stravolto, sedendoti accanto a me, prima di sporgerti verso il comodino e afferrare le sigarette.
Io scossi la testa, alzandomi dal letto e iniziando a recuperare i tuoi vestiti sparsi sul pavimento, per poi lanciarteli addosso.
«Sei tu a volerci rinunciare.»
Alzai le spalle, afferrando un paio di boxer puliti dal comodino, dirigendomi verso il bagno. Aprii l'acqua per darle il tempo di riscaldarsi, poi mi concessi uno sguardo allo specchio, chiedendomi se davvero i miei occhi fossero diventati di un colore più vivido. Stavo prendendo la decisione giusta, ma faceva tremendamente male.
«Porta con te quel posacenere, quando vai via.»
Non mi avvicinai nemmeno, ti lanciai sul lenzuolo anche quel maledetto spazzolino giallo, prima di voltarmi e costringermi a non guardare il tuo viso, la tua espressione.
«Grazie per la scopata, Seoungyoun, ma il tuo corpo è l'unica cosa che puoi darmi.»




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Oneshot scritta per il contest di rememberyourlife

L'amore è abbastanza?
No. La maggior parte delle volte, nonostante ci sia amore, questo non è abbastanza per superare i problemi, le diversità, la pressione di una relazione, le aspettative sociali. Avrei voluto focalizzare l'attenzione sul personaggio di Seoungyoun, nello scritto accenno ad una ragazza, che lui si rifiuta di lasciare, ma allora perché tiene stretto a sé Hanse? Perché la società, magari la famiglia o forse lui stesso, gli hanno imposto di nascondere quel suo bisogno di sentirsi fragile, è incapace di accettare l'idea di essere la parte accudita e non di accudire. Si affida ad Hanse perché è un ragazzo particolare, perché entrambi sono complicati, uno più bravo dell'altro nel dialogo e nel ragionamento, ma il più piccolo ha qualcosa che Seoungyoun non capisce nemmeno. L'amor proprio.
Se il maggiore è disposto ad indossare una maschera, se è disposto a dissimulare i suoi sentimenti per semplice amicizia e attrazione fisica, Hanse no.
L'amore è qualcosa di unico, è un sentimento che non ha paragoni, è come adrenalina pura, lava, lacrime, è una discesa in corsa che termina con un muro di niente. È addormentarsi con il viso dell'altro stampato sotto le palpebre, è alzarsi con il pensiero: "chissà se si è svegliato anche lui". Eppure non basta per risparmiare ad entrambi la sofferenza. L'amore smisurato che Hanse capisce di provare per Seoungyoun, non è abbastanza per permettergli di fingere che quello che hanno possa bastargli.
Perché in conclusione Hanse va' via?
Perché nonostante i sentimenti che prova per il maggiore, tiene a mente una cosa: nessuno è abbastanza importante da poterlo far sentire qualcosa in meno di un intero.

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