Capitolo 2

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Non ero mai stato un soggetto facilmente impressionabile, o almeno, poche cose mi turbavano come quanto era successo il giorno precedente. Dubitavo fosse tutto frutto della mia testa, non ero folle, non avevo allucinazioni, probabilmente erano tutte dannate coincidenze che volevano farmi credere di essere pazzo. Non cercai informazioni su Gerard Way, non era affar mio, non avevo voglia nemmeno di immischiarmi in faccende familiari già passate, semplicemente avevo bisogno di staccare ancora una volta da tutto il resto finché fosse possibile. Ero intimorito nel tornare a scuola, quel lunedì. Non mi aspettavo succedesse qualcosa di strano, alla fine, era solo un incidente, forse avevo visto male. Sì, avevo visto male.
Cercai di autoconvincermi ancora una volta di non essermi immaginato l'incidente, il ragazzo dai capelli rosso fuoco che leggeva Il Palazzo Della Mezzanotte. Quel ragazzo. Era così normale, così distaccato. Così dannatamente attraente. Nemmeno detto oggettivamente, lo dicevo per me, era davvero bello.
Insicuro com'ero, dubitavo anche su chi fossi io veramente. Voglio dire, non avevo mai avuto una ragazza, non ne ero attratto, molto probabilmente ero omosessuale. Non lo sapevo, non avevo mai avuto nessun tipo di rapporto e basta. Feci una smorfia pensandoci. Ero così chiuso e solitario da non sapere nemmeno se fossi attratto dagli uomini o dalle donne.
Mamma quella mattina fu più insistente del solito. Più premurosa, ma meno loquace. Non disse cose inutili. Si preoccupò piuttosto di lasciarmi il pranzo fatto da lei, come se il cibo della mensa contenesse allucinogeni e non si fidasse. E se fosse proprio così? Magari mi ero drogato. Avevo immaginato tutto perché forse i vicini avevano messo qualcosa nel cibo. Era così, ne ero certo. Erano troppo inquietanti per essere normali. Mi avevano drogato? Sì. Non sarei più andato da loro, questo era sicuro.
Tutti questi pensieri mi disconnettevano dal resto del mondo più del solito. Curioso, qualcuno si era anche seduto accanto a me durante l'ora di informatica. Non si sedeva mai nessuno accanto a me. Forse puzzavo, o ero troppo strano per far sì che qualcuno si avvicinasse. Fatto stava che qualcuno si sedette, ma non lo guardai, non ne avevo né voglia né mi sarebbe andata una coversazione con uno sconosciuto. L'ultimo sconosciuto con cui avevo parlato mi era rimasto impresso nella testa per ventiquattro ore. Più di una volta mi chiese come mi chiamassi, semplicemente lo ignorai.
«Iero!» mi chiamò qualcuno da dietro. Fui come destato dal sogno. Sobbalzai girandomi nella direzione dalla quale proveniva il suono.
C'era la ragazza che ogni tanto mi salutava la mattina seduta proprio dietro di me che cercava di sussurrarmi qualcosa, chissà, forse mi stava chiedendo di rispiegargli qualcosa che non aveva capito. Ero molto bravo in informatica.
«Ehi, Iero, puoi darmi una mano?» chiese in tono quasi supplichevole.
«Sì» sussurrai, annuendo.
«Bene, perfetto, vengo a sedermi accanto a te» fece un ampio sorriso. Stavo per dire che c'era già qualcuno seduto accanto a me, ma quando mi voltai era sparito. Sparito. Avrei giurato di aver visto qualcuno sedersi accanto a me e chiedermi come mi chiamassi, lo avevo sentito ma lo avevo ignorato.
La ragazza di cui a stento ricordavo il nome - forse Jamia o una cosa del genere - si sedette velocemente accanto a me, chiedendomi di rispiegarle come si facesse a translare il quadrilatero sulla linea opposta del foglio di lavoro. Velocemente rispiegai, con mezzi termini, in modo che capisse alla svelta. Le feci fare un tentativo da sola, e sembrò riuscirci. Mi ringraziò a voce alta, e annuii. Sapevo solo dire "sì, no e forse" con la testa.
Tornai a concentrarmi sulla sedia vuota accanto a me. C'era qualcuno prima di lei. O forse con la coda dell'occhio avevo visto qualcun altro, ma che era più lontano, ogni tanto la mente mi faceva questi giochetti illusionistici. Probabile.
Era così asfissiante stare in classe. Fortunatamente il tempo volava, ed ero invisibile, quindi quelle poche volte che venivo interpellato era per chiedermi qualche suggerimento dai compagni o l'orario. I professori a volte si dimenticavano che esistessi, forse perché il mio cognome così inusuale e la mia e collaborazione così limitata facevano loro scordare che ero in classe. Meglio così.
Inoltre ero, come dire, basso. Molto basso, rispetto a quelli della mia età. Loro giocavano a pallacanestro, a football, a rugby, facevano nuoto, sport, io non praticavo niente di tutto questo, ero un piccoletto invisibile e silenzioso che non dava fastidio a nessuno. Nemmeno un metro e settanta, ma era un vantaggio per il mio carattere introverso, o sbaglio?
In mensa aprii il sacchetto del pranzo che mamma mi aveva dato, c'erano due sandwich che sembravano appetitosi. Non era innaturale da parte sua, preoccuparsi di prepararmi il pranzo, ma non ero stupido, sapevo che lo aveva fatto per qualche motivo.
Mentre tiravo fuori i miei sandwich e li poggiavo sul vassoio, notai una scatoletta nel sacchetto. La tirai fuori. Erano farmaci. Con allegato un bigliettino. La scrittura era della mamma, l'avrei riconosciuta tra mille altre. Citava testualmente "Frankie, prendi due di quelle pastiglie, stanotte ti è salita un po' di febbre", e dovetti farlo. Non sapevo se era una bugia, il giorno prima mi aveva palesemente chiesto se avessi smesso di prendere i farmaci. Ero più pallido del solito? Perdevo capelli? Cosa c'era che non andava?
Di fatto presi le due pastiglie, non si sapeva mai. Forse girava qualche strana influenza. Forse ero pazzo, e dovevo prendere medicine per curarmi, ma era escluso, io non ero pazzo.
Per due secondi vidi qualcuno accanto a me, ma non appena alzai la testa non vidi più nessuno. Al diavolo, Frank, cosa ti prende?

By Your Side In Your MindWhere stories live. Discover now