Capitolo 4

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Quella mattina non mi ero ritirato dall'andare a scuola, anche se la notte precedente non avevo chiuso occhio, non ne volevo sapere. Gerard non si era trattenuto in casa mia per troppo tempo, appena era andato via mamma si era svegliata, ma non mi aveva fatto domande. Chissà, forse se n'era dimenticata.
Odiavo andare a scuola il giovedì, era sempre stato il mio giorno sfortunato. Entrai in classe deglutendo più volte, finché non mi si seccò la bocca. Sentirmi tutti quegli sguardi addosso, quei maledetti sguardi insistenti che sembravano volermi spogliare anche delle ossa. Mi mettevano così in imbarazzo. Raggiunsi in fretta il mio banco e mi sedetti, rannicchiandomi quasi su me stesso. Ero così bravo a sembrare invisibile.
«Iero» sussurrò una voce femminile dietro di me. Mi voltai quasi all'istante. «Che fine hai fatto ieri? Ti ho visto davanti alla scuola, ma non sei venuto.»
Ma chi era quella, Jamia? Cosa le importava? Era la tizia che avevo aiutato in informatica. Mi strinsi nelle spalle e tornai nella posizione che mi rimpiccioliva.
«Dai, Frank, a me puoi dirle queste cose» insistette «hai marinato?»
Venni scosso da brividi di rabbia e mi sentii avvampare. Non le risposi di nuovo, doveva star zitta.
«Ti va di fare un giro questo sabato? È il giorno prima della Vigilia.»
Mi stava prendendo in giro?
«Ho impegni.»
«Non sei mai impegnato.»
Strinsi i pugni. Era entrato il professore in aula. «Come fai a saperlo? Che cosa ti interessa?»
«Sei l'unico in questa classe che sta sempre da solo, credevo te ne fossi accorto, e volevo solo farti un po' di compagnia.»
Sospirai. «Non ne ho bisogno.»
Venimmo interrotti dal professore che ci richiamò. Ci mancava questa. Maledissi quella ragazza con tutto me stesso. Tornai a farmi piccolo ma non feci in tempo a nascondermi che il professore mi chiamò.
«Iero, vieni alla lavagna e svolgi questi esercizi.»
Per tre secondi rimasi fermo sul posto. Nessuno mi chiamava mai, e aveva anche sbagliato la pronuncia del cognome. Non sapevo svolgere quegli esercizi di fisica, non avevo studiato. Deglutii. Immaginai di avere tutti gli sguardi rivolti verso di me, che mi fissavano, come a volermi spogliare anche delle ossa. Lo avevo detto due volte nel giro di dieci minuti, il che mi inquietò. Che giornata iniziata di merda.
«Prendi il gessetto.»
Sapevo cosa dovevo fare, non ero stupido. Ma non sapevo svolgere l'esericizio. Non sapevo nulla. La vergogna mi travolse, arrossii cercando di non sbattere il gessetto sul nero della lavagna, per far sentire quanto mi sentissi frustrato e umiliato in quel momento. Non doveva andare così. Non doveva succedere, potevo ignorarla o marinare anche quel giorno, sperare di essere abbastanza pazzo da rivedere Gerard Way e non pensare a nient'altro che a lui.
Mi balenò nella mente il suo volto, la sua voce.
Gerard.
Lo vidi entrare dalla porta dell'aula senza fare rumore, nessuno badò a lui. Si sedette al posto vuoto accanto al mio, sorridendomi composto. Nessuno l'aveva notato. Il professore mi richiamò.
«Iero, l'esercizio.»
Lo guardai velocemente prima di rivolgere di nuovo lo sguardo a Gerard. Sbagliò di nuovo la pronuncia.
«Non hai nemmeno giustificato l'assenza di ieri.»
Si stava facendo pesante. Iniziai a odiarlo, e si appesantì la testa, il respiro, il peso sotto al mio corpo. Cercai con gli occhi una risposta da Gerard, che non arrivò. Abbassò la testa con un sorrisetto trattenuto, e fu un colpo al cuore. Non perché fosse bello, o che mi avesse fatto tenerezza, lui aveva detto di avermi voluto aiutare e non lo stava facendo.
«Non vorrei costringermi ad avvertire i tuoi genitori.»
«Sono maggiorenne.»
«Finché sei in questa scuola, non sei libero di scorrazzare in giro per il paese invece di svolgere il tuo dovere» alzò il tono di voce e avrei voluto tappargli la bocca, o scappare, o dare un calcio al muro. Non scelsi nessuna di queste opzioni.
«Non ho scorrazzato in giro per il paese» risposi a denti stretti.
«Frank» dissero due voci in coro, una femminile e una maschile. Gerard, e anche la stupida dietro di lui. Maledissi lei e implorai lui con lo sguardo. Gerard ricambiò lo sguardo implorante, voleva che tacessi. Avrei taciuto, se era così che voleva.
«Bene, prendi le tue cose e vai in Presidenza, convocheremo tua madre.»
Battei un pugno sulla coscia stringendo le labbra, per combattere la rabbia. Andai al mio posto e sussurrai un grazie a Gerard, che ricambiò con un sorriso spento. «Ci vediamo dopo.»
Annuii.
«Perché grazie?»
Era stata Jamia a parlare. La guardai torvo. «Non dicevo a te.»
Per un attimo la vidi spalancare gli occhi, poi mi alzai dal posto e a passo svelto lasciai l'aula. Chiusi la porta alle mie spalle, sospirando, forse per non piangere. Non avevo intenzione di andare in presidenza, perciò guardai l'ora: ero ancora in tempo prima che il professore finisse la lezione e mi portasse dal Preside, perciò chiamai mamma e mentii che non mi sentivo benee che forse avevo un'influenza. Arrivò non troppo tempo dopo, giusto in tempo per firmare e poi la campanella suonò. Andai a passo svelto verso l'uscita accompagnato da mamma e salii in macchina, facendo finta di avere mal di stomaco. Arrivati a casa, senza dirci una parola, sentii un nodo in gola. Corsi nel bagno del piano terra e vomitai per davvero, inaspettatamente. Mamma mi soccorse tenendomi la fronte, come succedeva ogni volta.
«Devi restare a casa» mugolò.
Scossi la testa emettendo un no strozzato, ansante. Come avrei visto Gerard? Dovevo vederlo, potevamo fare lezione insieme. Potevamo parlare, potevo avere un amico, non volevo restare a casa.
«Frank, ti prego, non sei in ottimo stato, e poi domani...»
Quell'interruzione non mi piacque. Era il telefono che squillava. Sentii la mano della mamma allontanarsi dalla fronte, e mi pulii la bocca con l'asciugamano. Ero in ansia, mi ero dimenticato che il professore avrebbe chiamato mamma e gli avrebbe detto che avevo marinato. Mi avrebbe messo in punizione, mi avrebbe fatto mille domande, mi avrebbe tolto il permesso di farmi altri piercing e di uscire ancora di meno, mi avrebbe impedito di vedere Gerard. Ma non potevo permetterlo, non potevo non vedere Gerard. Avrei inventato una scusa, una qualsiasi, qualcosa di credibile ma che non mangi la foglia, qualcosa di idiota e semplice in modo che non andasse alla ricerca di prove o che mi cacciasse in altri guai. Già la storia della canna doveva rimanere nascosta il più possibile, andava bene tutto, ma non che sapesse quello.
Mamma pose fine alla telefonata, non avevo fatto in tempo a preparare una scusa e andai nel panico, sentii un altro conato di vomito minacciare di uscire. Ecco perché vomitavo: gli attacchi di panico.
«Frank» pronunciò il mio nome senza espressione, atona. Dovetti reprimere un altro conato. Avevo caldo ma allo stesso tempo sentivo il gelo nelle vene. Stai calmo Frank, Cristo santo, stai calmo.
«Papà vuole venire a prenderti.»
Papà. Papà era peggio dell'essere scoperti di aver marinato. Era peggio dell'essere convocati dal Preside, era peggio dell'essere scoperti a fumare una canna con gente quasi estranea e poco di buono, papà no, non volevo stare con lui, mi odiava, odiava anche mamma, no.
Mi aggrappai alla porta del bagno per non cadere. Lui mi voleva male. Voleva uccidermi, lo aveva sempre voluto. Mamma lo aveva allontanato perché voleva farci del male. Ero il suo male. Mamma diceva che lo amava ancora, ma lui voleva solo il nostro dolore. Scossi violentemente la testa.
«Frank, lui non vuole farti del male» sentii una nota di rimprovero nella sua voce. Come lo sapeva? Lei non sapeva niente di cosa mi faceva papà quando ero solo con lui a casa. Mi avevano tenuto lontano da lui, da casa sua, perché sapevano che mi avrebbe fatto del male, che mi avrebbe ucciso.
Disapprovai scuotendo la testa con forza, stringendo i pugni. Volevo vomitare.
«Smettila.»
«Mamma, no! No! Non voglio stare con lui!»
«Lui non ti ha mai fatto del male!»
«Sì, invece! Mi ha colpito con un piede di porco! Mi ha spinto sugli scalini, mi sono rotto il naso, mi ha chiuso in quel posto orrendo, senza luce, mi ha picchiato! Mi ha sempre picchiato!»
«ERA LA SCHIZOFRENIA A FARTELO CREDERE, FRANK!»
Mi sentii mancare. No. Non ero schizofrenico. Non ero malato. Nemmeno pazzo. Provai a scuotere il capo, a rispondere, a reagire, ma ero paralizzato. Non ero pazzo, lui mi picchiava davvero, lo avevo visto, lo avrebbe rifatto. Non sarei andato con lui, non di nuovo. Arretrai nel bagno, piegandomi sul water.
«Oddio, Frankie, scusami, scusami tanto...» singhiozzò, prendendomi la fronte. Vomitai di nuovo. «Non avrebbero dovuto smettere di controllarti.»
«Non sono pazzo» sputai tra i colpi di tosse «mi odia.»
«Hai smesso di prendere i farmaci...»
«Non sono pazzo...»
«Va tutto bene, Frank, va tutto bene. Stai bene.»
Mi presi la testa tra le mani, preso da un forte mal di testa, poggiando i gomiti sul bordo del water. La testa girava lentamente, volevo dormire, dormire e non svegliarmi più. Non sono pazzo, mamma. Papà mi picchiava. E Gerard è mio amico. Gerard esiste, e io ho bisogno di lui.

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