SPICCHIO UNO | MELA ACERBA , AGRA E ACIDULA

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── Dove cadono le mele, ── innestò cento dubbi in me, ── noi cadiamo in tentazione ──.
Mi sorrise così il biondo.

•••

Una mattina mi svegliai.
E mi ritrovai davanti alla porta d'ingresso di casa mia.
Qualcuno bussava. Aprii la porta.
── Chi sei? E perché sei qui con una valigia?
L'alba culminò con l'aurora. E io parlai al ragazzo di fronte a me.
Poi, tutt'a un tratto giunse da noi mia madre.
── Oh, yeobo! È il ragazzo degli Stati Uniti d'America!
Questa chiamò in enfasi mio padre.
Questa poi mi disse: ── Jungkook, accogli come si deve il nostro nuovo ospite.
── Jeon Jungkook. Tu sei?
Fui incurante. E allora?
── Oh, Kim Taehyung. Lieto di conoscerti. E ovviamente di conoscerla, ajumma.
Leccò il culo a mia madre. Davanti a me.
Lei, mia madre, udite, udite, udite, scoccò uno di quei sorrisi da gatta morta.
Io già lo odiavo. Lui, invece, mi arrideva.
── Ho dato un'occhiata in giro. Il frutteto è meraviglioso! ── mi guardò con occhi ammiccanti.
La mela era il frutto dell'immortalità, la quale Ercole conquistò nel giardino delle Esperidi, i pomi d'oro. La mela era il frutto della guerra di Troia. Scatenò la guerra, essendo il pomo della discordia. La mela era altresì il frutto del peccato, il quale fece cadere in tentazione Adamo ed Eva.
E diede vita al peccato originale.
── Erano tutte mature le mele. Ma una acerba mi catturò ── lui mi guardò.
── In realtà, Taehyung. Le mele aspre non sono buone.
Confutò mia madre.
── Per me sì, signora Jeon.
E diede vita al peccato.
Inizierei col presentarmi.
(Jeon Jeong-guk, 1 luglio 2003)
Dopodiché vi parlerò di quel Kim Taehyung.
Due giorni prima.
Dieci di mattina.
Mio padre ricevette il suo solito pezzo di quotidiano. Mio padre poi si diede ai suoi canti da contadino blasfemo.
Mio padre poi ancora lesse il suo quotidiano come io mangiai la crostata di mele quell'alba. Lui lesse prima la parte su Seul. Io mi mangiai solo la frolla. Lui odiava Seul e io odiavo la frolla.
'Sti stronzi, quel coglione di Moon Jae-in, il nostro presidente, le puttane dei quartieri di Seul, come se qui, in questa brutta isola, di puttane non ce ne fossero; come se i nostri quartieri, questa distesa di cemento, calce, polvere e sudore fossero idilliaci.
Le sue fisime, le fisse, i preconcetti arbitrari, facevano credere a me e a mia madre che lui fosse ossessionato da Seul.
Ma io sapevo che amava Seul. Amava Seul, come amava la sua prima moglie.
Amava Seul perché là c'era la sua prima moglie.
E odiava la sua vita da contadino con quella campagnola di mia madre. E con me.
Io ero il suo coglione incapace.
Mi faceva pena lei.
Ma mi facevo più pena io.
Io ero il suo Coglione Incapace, mentre a Seul c'era il suo Francisco Lachowski coreano, il suo primo figlio.
Io facevo pena a mia madre.
E mia madre faceva pena a me.
Due di pomeriggio.
Il primo pomeriggio parlammo dei soliti garbugli politici.
Francamente, dell'etica, politica e religione non m'importava granché.
L'etica, filosofia che individuava le norme del nostro comportamento individuale, e la politica, invece, indagava sulle norme di comportamento pubblico.
La religione? Un culto? Un culto come quello dei fanatici degli anime? Chi sa.
Certo, Pericle ne avrebbe avuto da ridire, ma a me che importava? Era morto lui.
Per fare il proprio dovere, Pericle, oratore ateniese, diceva che bastava giudicare la politica. Decidere se chi governasse stesse facendo il bene dello Stato.
Di Pericle non m'importava.
Del nostro capo del Governo, dello Stato e della nostra repubblica semi-presidenziale poco m'importava.
Sei di pomeriggio.
Andai al pometo.
Poi, al mio ritorno a casa vidi melanzane che arrossivano sopra la griglia.
Mi piacevano le melanzane.
Otto di sera.
Al vespero, mio padre mi chiamò: ── Da dopodomani avremo compagnia in casa. Arriverà uno studente dall'America per uno scambio di un anno e perciò sii educato.
── Capito, ── gli risposi io, ── È un maschio? ──.
Gli chiesi.
── Fortunatamente, sì.
Chissà qualche fortuna.
Non vedevo una bella ragazza da quando mia madre mi aveva colto con quella snob di Jenny.
Perché tutti i coreani chiamavano le loro figlie Jenny? Sarà stata la mia quarta Jenny in diciotto anni d'indigenza.
Io preferivo nomi come Sienna, Meredith e Bethel.
Jenny strideva come Emily.
Era tanto brutto come il nome Seo-yun. Tutti quelli che non conoscevano la lingua coreana preferivano Seo-yun. E i coreani che non sapevano l'inglese preferivano Jenny.
Ma a chi importava?
Undici di sera.
Mia madre mi beccò con della cocaina.
Sudore grondava dalla mia fronte coreana (rotonda).
── Jungkook! Dove hai preso questa merda? Da' a me! Non ti permettere mai più di usufruire di stupefacenti o ti ritroverai sotto a un ponte.
── Come è successo a te? ── le domandai.
Mia madre era una cocainomane.
Anzi mi correggo, era una sua fase durante il liceo. Era la cool kid del liceo Hayashi S.
Perché un liceo coreano prendesse il nome da un colonizzatore giapponese? Non chiedete.
Lei amava l'alcaloide delle foglie di coca più delle melanzane umane sotto a matasse di peli, lisci, ricci, copiosi, neri, bruni e odoranti di gelsomino.
Nella sua epoca, sì, perché lei per me era un dinosauro, andava di moda fare sciampo al gelsomino alle nostre radure di peli.
Grottesca pagliacciata.
Come, da quanto io abbia compreso dalla rete, l'immagine dell'adolescente depresso cocainomane del ventunesimo secolo.
Quindi, avevo una bustina di cocaina sotto il mio arpeggione perché volevo purificare il mio cuore?
Perché volevo rammendare l'integrità del mio cuore da ragazzino depresso?
Era meglio che andassi a scrivere nella mia biografia di Instagram che ero depresso.
Quanti seguaci avevo? Sessantanove.
(69).
La posizione perfetta per la seconda volta a letto, non la prima.
Detto da un verginello, c'era da fidarsi.
Noi, vergini, sfavillavamo d'estro quando si trattava di sesso. Sesso belluino.
Chi erano i miei diletti discepoli (seguaci)? Ragazzi.
Credevano fossi omosessuale? La mia porta della camera da letto diceva no homo.
Sì, avevo della carta rosa imbrattata d'ambra giallo bruno sulla quale conviveva l'espressione convenzionale consacrata dalla tradizione di Jeon Jungkook; io medesimo.
Ero omofobo. Avevo paura degli omosessuali.
No, in realtà non li accettavo poiché pensassi che io fossi uno di loro. Sì, talora dubitavo della mia eterosessualità.
Una ragazza d'oggi mi avrebbe deriso: A quando il coming out? Francamente, faceva poco ridere.
Mia madre poi mi urlò contro.
Mia madre era mia madre.
Lei, i suoi scialbi quarantasette anni, le sue rughe e la sua tardiva resipiscenza.
Mia madre poi se ne andò con la mia cocaina.
Undici e mezza di sera.
Mio padre mi obbligò a guardare la Traviata.
Un capolavoro. Le belle tette di Violetta Valéry.
Dio, mi correggo, i bei brani dell'Opera.
Mi erano piaciuti tutti e tre atti.
Giuseppe Verdi portava onore agli italiani.
Sette di mattina.
In Chiesa andai di malavoglia. Oh, i Malavoglia?
Che c'entravano personaggi del romanzo di Verga? Un cazzo.
Nugoli di cane e un leone.
Io ero il leone perché avevo l'iPhone e loro i Samsung.
No, in realtà ero il leone perché portavo la tuta.
Le ragazze della Chiesa s'infatuavano dei pischelli che portavano la tuta.
Queste mi reclamavano fameliche. Perché, come avevo detto, le vergini erano le più allupate. Il libidine erompeva dai loro occhi color cioccolato.
Ma non potevano immaginare che la mia tuta grigia fosse delle Tartarughe Ninja.
Infagottato in un felpone grigio cinigia, andavo pavoneggiando tra quegli sfigati.
Un quattrocchi mi approcciò: ── Sfigato.
Mi prendeva per il culo? Mi prendeva per le mele? Fui il modello di comportamento di tutte le madri sud-coreane cattoliche, le Amazzoni coreane, del nostro ghetto e lui si permetteva di canzonarmi?
Tua madre gli avrei risposto a dieci anni. Ma ora?
── Coglione. ── mormorai.
Mio padre faceva così. La mela non cade mai lontano dall'albero. Ereditai le peculiarità di mio padre. E sì, solo allora me ne accorsi.
Ero una testa calda.
Mia madre era succuba di due uomini pieni d'ardore.
Dopo la pagliacciata in Chiesa di Moo-young, me ne andai a casa. Corsi. Corsi. E corsi.
Neppure se fossi stato una anime girl.
Il cielo perse la sua foschia mattutina e io mi celai in camera mia. Ma prima ancora gridai a mia madre: ── Eomma, le tue amiche hanno dei cani al posto dei figli!
Tutt'a un tratto, mi misi ad ascoltare una canzone.
Ah, look at all the lonely people.
Ah, look at all the lonely people.
Eleanor Rigby dei Beatles.
Sangue grondava dal mio naso, a continui rivoletti.
No, non ero eccitato a causa dei Beatles.
Presi un cencio dal comodino di legno di rovere e mi nettai il naso.
All the lonely people.
Where do they all come from?
All the lonely people.
Where do they all belong?
Ascoltai le parole. Pensai di essere nato nell'epoca sbagliata. E andai a fare un test in rete: in che epoca saresti dovuto nascere?
Mi pianse il cuore nel vedere che era un'epoca dove sarei stato succube di colonialismo e schiavitù.
No, in realtà ero ironico. Non esisteva l'epoca sbagliata. Non sarei dovuto nascere e basta.
'Ste pagliacciate di ragazzi della mia età, senza un minimo di conoscenza storica, mi facevano salire un senso di nausea.
Undici di mattina.
La mia voglia di vivere era nell'Iperuranio. La sede delle idee platoniche. O il posto che non esisteva, se non nella mente bizzarra dei filosofi.
Repentinamente udii delle grida.
Mirabilmente mi ritrovavo in piena campagna e dunque nessuno li avrebbe sentiti. Chi?
I miei genitori, palesemente.
Scesi la rampa di scale e vidi mio padre sulla soglia di casa. Urlava. Gesticolava. E urlava.
Cazzo, quanto urlava.
Cazzo, quanto mi spoetizzava.
Mi nauseava il suo modo di atteggiarsi nei riguardi di mia madre.
Li odiavo. Ma solo io potevo odiarli.
Mia madre non poteva odiare mio padre. Mio padre non poteva odiare mia madre.
Quelle erano le mie leggi. Leggi che, come dovunque, nessuno rispettava.
── Sei una puttana! Per colpa tua, per colpa tua, cazzo! Per colpa tua ho perso la mia Seojin-ah, la mia bella prima moglie. E ho perso il mio primo figlio, che sicuramente non è uno stracazzo di fallito come il tuo! Ha Eun-byeol, perché mi hai sedotto quel giorno? Perché poi abbiamo continuato a vederci? Perché Seojin-ah mi ha lasciato quando la colpa era tutta tua? Tutta tua.
── Ritorna a lavorare.
Sbottò a bere.
Spiegò dunque volgarmente circa la sua autorità.
Già, quel cretino là, quell'uomo magrolino, quell'ubriacone, era mio padre.
Jeon Seok-hoon.
(Jeon Seok-hoon, 26 aprile del 1972)
Sbatté la mano sul vertice di un comodino e andò imprecando verso la strada opposta al frutteto.
── Eomma.
Dissi io.
Passarono minuti e lei parve consumata.
Consunta, come i suoi abiti consunti.
Era fuori dalle orbita. Come lo erano i suoi occhi critici. Ma quanto potevano essere critici due occhi di una vecchia cocainomane?
── Che c'è, Jungkook? Parla.
S'irritò lei.
── Beh, è quello che fai ogni volta che mi chiami. In ogni caso, non dare peso alle sue parole.
── Ovvio, figlio mio. Ti ho cresciuta intelligente, eh?
Sbottò lei mordace. Era ironica.
Quella era mia madre. Forte.
Ad ogni modo, come osava deridere della mia intelligenza? Io osavo deridere solo dei suoi brownies.
Sembravano la merda delle corpulente vacche della signora Cheon. Come se quest'ultima non fosse una vacca anch'ella.
Anzi, era un'ingiuria a quelle povere mucche.
Una di pomeriggio.
Il mio cuore si usurò. Dalle guance di quella donna colavano lacrime.
Quella in realtà era mia madre. Fragile.
(Ha Eun-byeol, 9 aprile del 1974)
Fragile, come un fiore di anemone giapponese.
Odiavo quella donna ma: ── Eomma, andiamo al meleto?
Andammo al meleto.
Presto, ci sarebbe stata la raccolta di mele. Il mio momento preferito.
Le nostre mele erano di varietà Gala, Ozark, Gold e Gravenstein e dunque erano della raccolta estiva. Gli spilorci, tirchi, avari dei nostri concittadini ne comperavano solo due cassettoni.
Mia madre era con me.
Non piangeva, però.
Ma non rideva neanche.
Guardava le mele. Ma non me.
Mia madre non mi abbracciava mai.
Abbracciava mio padre, però.
Lui però la odiava.
A me non considerava mai.
La memoria le vacillava giorno dopo giorno. Si ricordava ancora la data del mio compleanno?
Molto probabilmente, no.
L'ultimo compleanno risaliva ai miei sette anni. L'ultimo augurio ai miei tredici.
L'ultimo sorriso ai miei quindici.
Avevo suonato il mio arpeggione sotto alle tremule stelle.
Poi, mi era venuta anche la diarrea per via del curry che lei aveva cucinato. Orribile.
Indugiai in quei ricordi e guardai, ancora una volta, mia madre.
Che sciocca.
Si consumava in cenere per un uomo. Lasciava a lui essere il suo carnefice. Di quel passo sarebbe scesa nel sepolcro per lui.
Ridicola.
── Andiamo a casa, Jungkook. Queste mele grosse mi ricordano delle tettone di Seo-jin. Dio sa quanto la odio.
── Su instagram Ki-joon, il figlio, ha dieci volte più seguaci di me. E sono più che certo che è rifatto.
Le dissi io.
── Come sua madre, d'altronde.
Borbottò lei.
Lei fece un passo in avanti per andare a casa.
Anch'io lo feci.
Quattro di pomeriggio.
Fui in camera mia.
Eruppe un diluvio. Qualcosa riversò la sua luce nel cielo. Vidi qualcosa che non faceva parte dell'etere cromatico degli esseri umani.
Mi sentii felice.
Mi affacciai alla finestra; il legno puzzava.
Il legno puzzava di legno di quercia.
E poi mi voltai per scorgere in quel groviglio di rottami il mio arpeggione, il quale se ne stava lì come un giocattolo rotto.
Mi misi un giubbotto e sgranai gli occhi una volta dinnanzi allo specchio.
Il mio giubbotto sembrava un'armatura medievale. Cosa mi aveva comperato mia madre?
Scesi in cortile. Un nugolo di polvere.
Piccoli frammenti si attaccarono alla mia armatura da guerriero medievale.
Che stesse per arrivare un uragano? Uno di quelli di scala alta come negli Stati Uniti? L'uragano Micheal? Saremmo morti tutti?
Ah, no. Era mia madre che sbatteva il suo tappeto arabico dal balcone del piano superiore.
── Che schifo! Eomma!
Volevo sporcarmi di pioggia ma, invece, mi sporcai di polvere del salotto.
Sopraggiunse il sole e gettò un velo di luce su di me. Stavo per morire? Era la luce di Dio che mi intimava a scappare? Dio mi stava accompagnando al momento della verità?
A pochi passi da lì, c'era una barca.
Una barca, beccheggiante su una riva, odorava di boccali, pinne, alborelle e cianoficee.
Sarei scappato con essa.
── Jungkook! Anziché ridicolizzarti così davanti a tuo nonno, porta il culo in salotto e vieni ad aiutarmi a sciorinare i panni. Sta per ritornare il sole.
Esclamò mia madre.
E sì, c'era anche quel vecchio decrepito del mio nonno materno.
── Oesonja, che stavi facendo? Dio non aiuta peccatori come te.
Mi brontolò lui.
(Ha Sung-rok, 1 marzo del 1944)
── Ah, grazie! Nonno! Così, anche tu pensi che sono solo come un cane. Grazie!
Girai i tacchi.
Prima mi chiamava oesonja come se fossi il suo nipotino prediletto e poi si permetteva di dirmi cose brutte. Cose brutte. Bel nonno.
Varcai la soglia della porta e vidi dell'Alchermes sul tavolo rustico. Il liquore rosso, il quale avevo bevuto per seminare terrore in questa casa di falliti a dieci anni.
Mi raggiunse pure il vecchio. Aveva una faccia disseminata di bubboni purulenti. Dio, che schifo.
Mi piaceva mio nonno, per carità. C'erano solo determinate cose che non mi convincevano. Come il suo aspetto, anzi sorriso, da Prete pedofilo.
Non poteva somigliare più a Padre Brown? No.
Era coreano, cazzo. Mica inglese.
Poi, uno scoppio di riso irrefrenabile.
Giunse mio padre. Quest'ultimo andava veramente d'amore e d'accordo col suocero.
Giocavano sempre a briscola. Neppure se fossero stati italiani.
Mio padre, scesa la rampa di scale, pavoneggiò le quaranta carte di briscola.
E là capii che mio nonno, anche stavolta, non mi avrebbe sentito suonare l'arpeggione.
Che razza di... ero troppo bello per essere ignorato da questi campagnoli!
Il dì si tramutò in sera.
Altri scoppi di riso.
Io e mia madre ce ne stavamo in cucina. La nostra era una famiglia di stampo patriarcale, purtroppo.
Con del pan fresco agli angoli della bocca e una maglia neroviola, mi rintanai in camera mia.
E mi guardai dei porno. Il porno era il cancro della società. Io però non n'ero dipendente.
Ebbri della birra e Alchermes, mio nonno e mio padre gridavano a squarciagola i loro accenti campagnoli nel salotto.
Io guardavo un porno giapponese sul mio computer Asus, pieno di virus.
Sul punto di andare in visibilio, sentii qualcuno bussare alla porta.
Ed ecco il campagnolo blasfemo in me. Imprecai almeno sette volte (sette, il mio numero preferito).
── Jungkook. Domani arriva lo studente, perciò cerchiamo tutti di essere meno strani.
── Va bene. Ora, vai.
Sbottai solo.
Una di mattina.
Il mio pene si erse duro sotto il lino del mio pigiama. Non aveva senso, perciò andai a dormire.
Col sonno si sbiadì così la subitanea eccitazione.
E sette di mattina.
Quella mattina mi svegliai e vidi un biondo davanti alla nostra porta d'ingresso.
Ed io mi accorsi di un'ambivalenza di sentimenti.
Il suo atteggiarsi era più proprio di un Bianco.
Ma il volto era coreano.
Gli feci una pernacchia.
── Erano tutte mature le mele. Ma una acerba mi catturò.
Disse il biondo.
Neppure se quest'ultimo fosse stato l'attore Park Seo-joon in persona. O l'attore Shahrukh Khan.
Non che io fossi egocentrico, però parlava di me?
Io una mela acerba, agra e acidula?
Aigoo.
── Okay, adeul. Va' a lavarti, così illustrerai a Taehyung il posto e passarete una bellissima giornata con noi.
── Appa lo può fare.
── Jungkook, va' a lavarti.
── Okay.
Nove di mattina.
La stanza di Taehyung era accanto alla mia.
Non bussai, perché era casa mia. Ed entrai.
── Che fai? ── gli domandai.
── Leggo un libro.
Mi rispose. Non mi guardò, però.
Portava degli occhiali, erano delle tazzine di caffè.
Altro che Harry Potter. Risi a squarciagola.
── Fai ridere.
Scherzai.
── Perché? Tu non leggi, Jungkook?
(Kim Tae-hyung, 31 marzo del 2004)
── Sono sano, grazie.
Fiaccola dell'odio. Si accese in me una sorta di animosità.
Lo odiavo, me lo ripetei in mente.
── Okay, quattrocchi. Muovi quel bel culo e andiamo a farci un giro nel mio ghetto.
── Cos'altro faremo?
Mi chiese, posando il libro sul comodino. Il suo era di legno di noce.
── Beh, magari scoperemo.
Scherzai io.
── Serio?
Mi domandò, trasecolato.
── No homo, bro.
Boom. La formulina magica.
Andammo per iniziare bene al meleto. Woah.
── Quanti anni hai? ── gli domandai.
── Diciassette. Tu? ── ricambiò.
Dio, diciassette? Di cosa lo nutrivano i genitori?
── Diciotto. Quindi, dongsaeng, porta rispetto al tuo hyung.
Eretto sotto agli alberi dei frutti del peccato, dei pomi globosi, ombelicati, con polpa croccante, mi scrutava come se fossi il firmamento.
Ci spostammo sul ciglio della riva.
Carpino bianco, betulla, ontano comune, tiglio selvatico, acero riccio, frassino comune, faggio, farina, sughero, abete rosso, larice, castagno, pioppo, salice piangente, sorbo degli uccellatori e robinia.
Cazzo. Là, c'era tutto.
Questo era il mio Paradiso. Ove si viveva in limpida beatitudine.
Certo, come no.
Tutt'a un tratto, una raganella, un rospo smeraldino e una limaccia si misero a far festa sulle mie scarpe consumate color nocciola.
── Che schifo! Taehyung, fa' qualcosa!
Lo spronai.
Lui prese questa combriccola di malvagi animaletti a mani nude.
── Potrei vomitare ti prego.
── Almeno ti ho salvato, hyung.
Rimarcò lui.
── Vuoi andare in barca?
── Sì, hyung.
Fece l'innocente. Come se in quello zainetto di marca non si fosse portato una bottiglia di vodka e delle sigarette Marlboro. Idiota.
Feci salire prima lui in barca. Pivello.
Ma, imbecile qual'era, fece un passo sbagliato e cadde in acqua.
── Non ce la posso fare.
Sbottai a ridere.
── Cazzo, sei tutto bagnato.
── Cazzo, mia madre mi uccide se vede come ti ho ridotto.
Poi, piansi.
Il biondo era grondante d'acqua, capelli bagnati putridi, maglia di cotone bianco, ora cristallina, e i pantaloni moralmente corrotti.
Dio, si vedeva tutto.
Evitai di travalicare, ma si vedeva tutto.
E lo zaino? Ah, già. Ce lo avevo io.
── Ti aiuto subito.
Lo soccorsi. Lui, genuino, mi ringraziò.
Forse, non aveva capito che avevo deriso di lui.
Era ancora bagnato fradicio.
Grondava acqua dai noodles che aveva in testa.
Mia madre mi avrebbe fucilato sul posto. Poi, dei barbagli di luce d'estate mi condussero là.
Là, nel paradiso delle mele.
Prendendogli la mano, corsi verso il meleto.
Corremmo come pagliacci americani verso il meleto dei miei.
Giunti lì, io mi sedetti sotto a un albero e il biondo sbottò a ridere.
Poi, mi arrise. No, le mie tempie non si imbrattarono di rosa come negli anime.
── Mi piaci, hyung. Sei divertente.
Mi ammiccò.
Che cazzo? Io ricambiai il complimento. E offesi il suo coreano.
Era più americano di un americano. Embarrassing.
── Che stai facendo?
Gli chiesi d'un tratto. Lo vidi spogliarsi davanti ai miei stessi occhi. Prima la maglia e poi i pantaloni.
E poi ancora lo vidi camminare a piedi nudi ed esporre all'aria i suoi abiti, tranne che i mutandoni, i boxer, i quali vestivano ancora la sua parte intima. E meno male.
Lui infine si sedette accanto a me.
Il meleto esalava un dolce odore di mele.
── Mi parli di qualcosa? Qualcosa di caratteristico di Cheonsando Island, della gente del posto o di te.
Io allora, come se avessi avuto la mia armatura medievale, gli sciorinai tutte le porcherie dei miei vicini. Vociferavano porcherie su di loro nella piazza, nei lavatoi e al mercato del paese. Anche nelle osterie, laddove andavamo ogni qualvolta io e il mio padre alcolista.
Lui si urbriacava. Io, invece, udivo i pettegolezzi.
La signora Cheon aveva tradito il marito con il fattorino di latte di capra.
Che poi non capivo perché ordinare il latte di capra quando avevano un intero allevamento di mucche.
E là sbottai a ridere.
── L'altro mese poi ho visto suo figlio venire bullizzato a scuola. La signora Cheon, alla sua preistorica età, dovrebbe capire quali siano le sue priorità.
Gli narrai poi di come fosse la nostra comunità.
── Siamo un po' come la gentaglia nord-coreana di Crash landing on you. La serie coreana, non so se l'hai mai vista. Molti villaneggiano, molti sono imbecilli, ignoranti e altri, come mio padre, sono lo zimbello del villaggio. E poi c'è chi è buono, mansueto e generoso. C'è, diciamo, una mescolanza di tutto. Ci sono anche gli spioni ma in un modo o nell'altro ci supportiamo. In fondo, non è male come posto.
Lui annuì.
── Comunque, Taehyung. La mela acerba di cui parlavi stamani...
── Eccola, ── mi interruppe lui, ── è proprio sopra di te ── .
── Oh.
Dissi solo. E poi, girai la testa per scorgere con gli occhi la mela ancora acerba.
Quando la mia testa ritornò alla posizione di prima, Taehyung si avvicinò a me.
S'insinuò tra le mie gambe, come se fosse una cosa normale, e mi guardò inclinando il capo.
── Sei homo?
Gli domandai.
── Sì, hyung.
── Io sono omofobo.
Gli sorrisi io.
Lui ricambiò il mio sorriso.
── Buon per me, hyung.
M'imbavagliò con un bacio.
Cosa? Sì, Taehyung aveva permesso alle nostre labbra di collidere.
Avanzò tra le mie gambe ed io gli permisi di baciarmi.
Ci baciammo ancora una volta. Un'altra ancora. E ancora un'altra.
Lui tremebondo insinuò le affusolate dita all'interno della mia maglietta neroviola di ieri notte. Una cortina di fumo avanzò verso il cielo.
La vicina, la signora Cheon, stava preparando il pranzo a base di legumi.
E noi due avidi continuammo a baciarci.
Solcammo le onde della vergogna.
Lui abbatté la mia vergogna di cartapesta.
Comparve al mio orizzonte, al telone chiaro di questo teatro, come un istrione romano.
Mi accarezzò il volto e in un batter di ciglia ci ritrovammo distesi sul prato, a ridosso dei radi cespugli di more.
Io ero omofobo?
No, avevo solo paura di scoprirmi omosessuale. Ma le donne continuavano a piacermi...
Ero bisessuale?
Taehyung non mi lasciò un attimo respirare.
Ci facemmo accarezzare dall'erba, la quale per il bestiame non veniva falciata da settimane.
Lui, sopra di me. Io, sotto di lui. Amoreggiammo come due adolescenti sovreccitati.
Quello che provai fu morboso. Quello che facemmo fu materia di romanzo. Dove noi fummo diventò una limoneria.
Che volesse fare un sessantanove? A tal punto, volli chiudere la copertina.
Perciò, alla fine trotterellai via come un maiale.
Poi, giunse alle nostre orecchie un vociare molesto del marito della signora Cheon.
Dunque io e Taehyung ci nascondemmo.
Il sole toccò lo zenit. E si andò celando nell'orizzonte.
Noi ci accingemmo a far ritorno a casa dei pazzi.
── Omo, omo! Taehyung-ssi hai corso? Come mai sei così rosso in volto?
Domandò mia madre. Eravamo in salotto.
── Sì, eomma. Ha corso. Ama correre.
── Esattamente, hyung.
Lui mi ammiccò. Ancora.
── Eomma, ho fame.
Le rimarcai toccandomi la sottile pancia.
Questa m'ignorò completamente.
── Taehyung, tesoro. Hai fame?
Gli chiese.
── Non tanto. Sono abbastanza pieno, le mele del frutteto erano squisite.
Mi guardò.
Sì, modestamente ero squisito.

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WHERE APPLES FALL, TAEGGUK Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora