1. Nel bene

268 31 7
                                    

La prima emozione che Chuuya conobbe, con l'aiuto di Dazai, fu la felicità.

la prima volta che Chuuya fu felice aveva sedici anni e la sua felicità iniziò con un ago in vena.

Era pomeriggio, anche se forse sarebbe stato più appropriato dire che era sera, fuori dalla finestra della camera da letto di Dazai il sole s'aggrappava all'orizzonte senz'alcuna intenzione di lasciarsi cadere, apparentemente immobile tra le macchie opache del vetro sporco da cui Chuuya l'osservava distrattamente, più concentrato su come questo andasse a tingere le nuvole d'oro che sull'oro stesso.

Vernice appena passata contro un cielo celeste, ceruleo come quegli stessi occhi che adesso lo guardavano, attendendo l'arrivo di qualcosa senza sapere cosa.

Osamu lo aveva fatto entrare in casa sua e poi lo aveva lasciato solo ad attendere in quella stanza spoglia, senza quadri e con un armadio senz'ante, chiedendogli pazienza senza spiegargli perché, liquidando ogni sua domanda con un

"Oggi sarai felice."

lasciandolo a chiedersi, per minuti o per ore, se essere felice gli avrebbe fatto male, se diventare un po' più umano lo avrebbe fatto soffrire, perché l'unica cosa che Nakahara sapeva sulla sua vita da umano era che tutto faceva male.

E tutto quello che sapeva su Dazai era che per stargli dietro allora dovevi essere disposto a farti ancora più male.

Il rumore sordo d'una porta che veniva chiusa e qualche passo trascinato, non pigro quanto piuttosto eccessivamente flemmatico, stanchezza e noia indossate come copertura per una smania violenta ed una frenesia che Dazai non avrebbe ammesso di provare, segnarono la fine dell'attesa del fulvo.

Chuuya distolse lo sguardo dall'eterno tramonto sopra la sua città ed ebbe quasi l'impressione che improvvisamente si fosse fatta notte ora che il moro era arrivato nella sua stessa stanza, con il volto pallido e le dita fasciate serrate attorno ad un misero cofanetto di legno, in piedi davanti a lui che invece stava seduto tra le lenzuola sfatte d'un letto senza rete, abbandonato al suolo.

Il fulvo era stato tante volte a casa di Dazai ed ogni volta gli veniva impossibile non stupirsi quanto quel piccolo, giovane, uomo appartenesse alla sua abitazione e di quanto questa fosse l'estensione di lui stesso, perché in quelle stanze lui era ovunque, sia nel bene che nel male.

Era nel pavimento di legno scuro e sporco di polvere, colorato dal riflesso di bottiglie vuote; era nel tavolo in camera da pranzo ingombro di bende umide per il sudore, secche per il sangue, nello stesso tavolo su cui stava abbandonato un posacenere pieno di mozziconi suoi e di Chuuya, che non svuotava mai ma che continuava ad usare; era nei piatti accatastati nel lavello in cucina e nel frigo sempre vuoto, in quell'unica foglia di lattuga lasciata a infracidire nel fondo del cassetto delle verdure e nel ghiaccio del freezer, che si era sciolto in una pozza facendo marcire il parquet.

Dazai e il suo ghigno amaro, i suoi capelli pieni di nodi, i suoi lividi, le sue ossa rotte e il suo unico occhio scoperto, libero dalle bende, che osservava il mondo socchiuso, senz'attenzione, senza voglia.

Dazai era lì nel male di quella casa che cadeva a pezzi, un morto che aspettava solo di morire di nuovo.

Dazai però era anche nel tepore delle coperte accartocciate, che sapevano di fumo e di chiuso, sul divano pieno di toppe in salotto, accanto alla finestra da cui si poteva osservare la neve cadere in inverno e il lampeggiare lento, scarlatto, d'un benzinaio di notte; Dazai era nella pistola sotto al suo cuscino, che gli dava la sicurezza necessaria per dormire la notte e che qualche volta, dopo una missione troppo dura per tornare in un'altra casa altrettanto orrida, altrettanto vuota, aveva dato la stessa sicurezza anche a Chuuya.

― 𝐂𝐨𝐩𝐲𝐜𝐚𝐭 *̥˚ 𝐬𝐨𝐮𝐤𝐨𝐤𝐮Where stories live. Discover now