0. Prologo

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Chuuya ancora non riusciva a vedere il sole ma tutt'intorno era tinto d'azzurro, d'una luce appena accennata che separava la notte dalla mattina come i contorni sfumati d'un livido lo separano dal resto della pelle.

Nel porto di Yokohama, tra i vicoli stretti che si formavano tra i container di ferro verniciato, arrugginito della salsedine, aleggiava sottile una nebbia biancastra che inumidiva i vestiti, che finiva per congelare il respiro e sul molo, in lontananza, i primi lavoratori s'adoperavano per sciogliere gli ormeggi delle proprie imbarcazioni.

Era quasi l'alba e l'unica cosa da cui lo si poteva notare era il fioco luccichio dei primi raggi di sole sull'acqua torbida del mare, su quelle creste, dettate dal vento e dal fondo delle barche a riposo, che inevitabilmente andavo a rifrangersi sulle banchine.

Un mare di scintille, lapilli accesi su una superficie informe.

E le stesse scintille passavano sotto le suole delle scarpe di Chuuya, seduto su una banchina con i piedi a penzoloni sopra il mare quieto, che puzzava di gasolio e di sale, che avrebbe finito per attaccarsi ai suoi capelli rossi, accecanti nelle prime luci del giorno, fastidiosi sul suo volto ancora giovane, ancora privo di segni, ora che il vento li scuoteva appena.

Era ora di tornare a casa per lui, quella notte si era dato da fare per portare a termine tutti i compiti che Mori gli aveva assegnato il giorno prima e finalmente poteva prendersi il suo riposo, magari poteva addirittura dormire fino alla notte successiva, fino alla prossima missione.

Magari, addirittura, sarebbe riuscito a sognare.

Chuuya non aveva mai sognato, neanche una sola volta, semplicemente si coricava e come morto arrivava al giorno dopo.

Ci aveva provato, più volte, senza mai alcun risultato fino a quando non si era arreso, anche se ogni tanto continuava a sperarci, solo un po', convinto che mentendosi allora sarebbe riuscito a ferirsi di meno.

Effettivamente erano tante le cose che Chuuya non riusciva fare: non poteva ricordare il suo passato, non poteva sognare e chissà cos'altro c'era che lui nemmeno credeva fosse anormale, perché ogni sua stranezza non faceva altro che allontanarlo da qualcosa che cercava disperatamente da tutta la vita, qualcosa che era convinto d'aver trovato, prima tra le Pecore e poi nella Port Mafia.

Qualcosa che continuava a sfuggirgli di mano nonostante gli sforzi:

- Cos'è che rende un essere umano "umano"?-

E non gli serviva vederlo per sapere che Dazai fosse dietro di lui, in uno di quei vicoli artificiali che cambiavano ad ogni nuovo attracco di ogni nuova nave mercantile, con la schiena poggiata ad un container ed il volto, probabilmente, rivolto verso il cielo dove lui ora soffiava fumo, perché Chuuya poteva annusare il bruciare amaro del tabacco.

Sono stati insieme, tutta quella notte, a lavorare come coppia perché erano i migliori in questo, perché sembravano muoversi in tandem e completare, quasi spontaneamente, l'uno le mosse dell'altro.

"Il Doppio Nero", il loro premio per ottantotto giorni di guerra, la loro fetta intangibile di cinque miliardi di Yen, un traguardo che Chuuya avrebbe preferito non tagliare.

Il moro non rispose subito alla sua domanda, occupando il silenzio con un sospiro, forse per il fumo forse per l'impossibilità di rispondere con certezza:

-La parola?

Il fatto che sappiamo parlare, il linguaggio e tutta quella storia del vocabolario ci rende umani, ci separa dalle bestie, suppongo.-

Nakahara poteva percepire il sorriso accennato sul volto del moro, se lo sentiva sulla nuca insieme alla consapevolezza del perché lui gli avesse posto quella domanda, perché non ne avevano mai parlato e lui mai avrebbe ammesso d'avere preoccupazioni o timori di fronte all'altro, ma era da quando era morto Rimbaud che la sua mente non riusciva a trovare a pace, le sue domande a trovare risposte.

― 𝐂𝐨𝐩𝐲𝐜𝐚𝐭 *̥˚ 𝐬𝐨𝐮𝐤𝐨𝐤𝐮Waar verhalen tot leven komen. Ontdek het nu