8. Velo di morte

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Casa di solito era il posto dove Cinque riusciva a rilassarsi e trovare la sua quiete, ma non quel giorno. Si era rifugiata nel suo nido e se ne stava con le gambe accovacciate contro al petto e il mento sulle ginocchia, le braccia a circondare le cosce come a farsi piccola.

Ogni nido era uguale per tutte: li formava Madre modellando i rami degli alberi intorno alla radura dove erano solite mangiare e divertirsi insieme. Quando il bozzolo di una nuova sorella si apriva, Madre stessa si premurava sempre di accompagnare la neonata a conoscere le altre e faceva vedere con quanta facilità gli alberi cambiassero forma per suo volere. Così alcuni rami alti si piegavano, incurvandosi senza rompersi per creare delle sfere cave con una piccola apertura su altri rami che invece si avvicinavano a formare una base solida.

Cinque aveva riempito il suo nido di erba e foglie per renderlo più comodo, ma in quel momento nulla avrebbe potuto donarle conforto. La luce del sole filtrava dall'apertura e le voci delle sorelle intente nei loro compiti quotidiani le giungevano ovattate. Non avrebbe voluto ascoltarle comunque, perché non facevano altro che parlare dell'attacco appena avvenuto.

Avevano portato Otto da Tre in modo che curasse le sue ustioni, mentre il corpo senza vita di Tredici era stato lasciato a Sedici e a Diciassette, in modo che lo preparassero per il rito funebre. Madre aveva disposto così e c'era una certa concitazione tra le ninfe, dato che nessuna di loro era mai morta, prima.

Cinque non voleva pensarci, anche se le immagini dello scontro non accennavano a levarsi dalla sua mente. Una vocina maligna continuava a ripeterle che era tutta colpa sua: se avesse agito, invece di allontanare il mezzo elfo, avrebbe potuto impedire che Tredici venisse uccisa.

Era colpa sua.

Colpa sua.

Sua.

E a nulla serviva starsene rintanata nel nido, lasciando il resto fuori. Tredici non c'era più, erano stati gli uomini a ucciderla e quante altre sorelle avrebbero seguito quella sorte?

A ogni nuova invasione gli uomini erano stati sempre di più, sempre più pericolosi e ormai Cinque non poteva far altro che aggrapparsi alla speranza che Garrett le salvasse tutte. Doveva farlo, per forza. Garrett doveva essere la chiave per convincere il mondo a lasciarle in pace o l'averlo fatto fuggire non sarebbe servito a nulla.

Era servito a lei.

Strizzò le palpebre e trattenne le lacrime, picchiandosi un palmo sulla fronte più volte per scacciare quei pensieri. Non se ne sarebbero andati, però, perché avrebbe potuto fingere con sé stessa quanto voleva che il permettere a Garrett di fuggire era stato per aiutare le altre.

Non era vero.

Lo aveva fatto per lui o per lei stessa, poco importava. Era stata egoista e aveva anteposto degli stupidi desideri irrazionali al bene delle sorelle. Non si poteva tornare indietro e cambiare il passato, ma la cosa che in quel momento le faceva più male era la consapevolezza che lei lo avrebbe rifatto; nonostante tutto, non avrebbe mai permesso che Garrett venisse ucciso dalle sorelle.

«Cinque?»

La voce di Uno, dal basso, la fece sobbalzare. Si asciugò in fretta il viso e si mise carponi per tirar fuori la testa dall'apertura del nido; guardando verso il suolo, vide che la sorella maggiore era ferma col naso all'insù, in attesa con le mani sui fianchi. Cosa poteva volere da lei?

«Scendi, devo parlarti.»

Riluttante, Cinque fece come le era stato chiesto e si lasciò cadere dal ramo, atterrando leggera davanti alla sorella. C'erano altre a guardarle e tutte si erano zittite, contribuendo a innalzare la sua ansia. Uno passò lo sguardo nella radura tra gli alberi dei nidi, poi le fece un cenno con la testa. «Non qui.»

CinqueWhere stories live. Discover now