9. Io non sono ingenua

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Aprire gli occhi fu un incubo. La gola secca bramava dell'acqua tanto da portarlo a molteplici colpi di tosse rauca e Garrett si portò un pugno chiuso alla bocca, cercando di calmarsi. Ci mise qualche istante a rendersi conto di essere libero di muoversi, anche se i muscoli gli dolevano e la pelle intorno al collo e ai polsi era piena di escoriazioni. Gocce di sangue si erano ormai raggrumate in croste scure e lui se ne stava sdraiato su quella che doveva essere terra battuta.

L'ambiente tutto intorno era davvero buio, l'odore predominante era proprio quello del suolo, tanto intenso da penetrargli nelle narici fin dentro al cervello. Massaggiandosi la gola, il mezz'elfo riuscì a mettersi seduto e notò con un certo disappunto che lo avevano spogliato dell'armatura, della spada e della borsa, lasciandolo con le semplici brache e maglia di lino marroni. Gli avevano tolto persino le scarpe.

Non si stupì troppo quando nella penombra constatò di essere seduto in uno spazio davvero angusto, una specie di cella piccolissima con la terra nuda a formare il suolo, il soffitto e le pareti curve, mentre quella che dava sulla luce era composta da spessi cilindri lignei a intervalli regolari che ricordavano molto dei rami o delle radici. Sbarre singolari per una prigione che lo era altrettanto. Avvicinandosi a esse carponi, Garrett notò che la fioca luce proveniva dal resto di quell'ambiente circolare che ora divenne evidente fosse una sorta di buco sottoterra. Una tana, forse?

Da destra poteva intravedere quella che era probabile fosse la luce del giorno che filtrava da un'apertura in alto e c'erano parecchi piccoli punti luminosi a fluttuare ovunque senza una collocazione precisa. A Garrett ci volle un po', ma alla fine comprese che erano lucciole.

«Ti sei svegliato! Parlami di queste!»

Garrett sussultò, colto dallo spavento per l'improvvisa intrusione di quella voce nei suoi pensieri. Non se n'era accorto prima, ma in quel buco sottoterra non era da solo: acquattata sulla sinistra c'era una ninfa che lo stava osservando con gli occhi che brillavano alla luce dei piccoli insetti, un grande sorriso e un paio delle sue pozioni in mano. A differenza delle altre ninfe che aveva visto, indossava un semplice abito corto senza maniche fatto di foglie d'acero e aveva dei fiori ad adornarle i lunghi capelli grigiastri. Stava inginocchiata a terra accanto alla sua borsa e attorniata dalle boccette di vetro.

La situazione era assurda e il mal di testa che gli opprimeva le tempie di certo non avrebbe aiutato il mezz'elfo a capirci qualcosa.

Lei sbatté le palpebre un paio di volte, poi si spostò in ginocchio verso le sbarre lignee della sua prigione e allungò la mano destra, agitando il contenuto liquido della sua pozione di luce. «Sei muto? Hai paura? Non averne. Dimmi cos'è questa.»

La ninfa gli parlava quasi fosse un bambino, la voce bassa e pacata in netto contrasto con quella della creatura che lo aveva quasi ucciso. Come poteva non avere paura, quando tutto intorno a lui pareva essere tanto assurdo?

Doveva reagire, però, perché in fondo quella ninfa si stava dimostrando in qualche modo curiosa e rispondere alle sue domande forse avrebbe potuto aiutarlo. Aprì la bocca e provò a cominciare un discorso, ma la gola riarsa lo bloccò sul nascere, donandogli un'altra serie di fastidiosi colpi di tosse.

«Oh, poverino, devi avere una gran sete!»

Lei appoggiò le pozioni, si alzò e si diresse rapida verso destra in un punto che dalla sua gabbia Garrett non riusciva a vedere; tornò un secondo dopo con un secchio colmo d'acqua e un grande cucchiaio in mano. Fu lei stessa a porgerglielo attraverso le sbarre e Garrett bevve una, due, tre volte, fino a sentirsi un poco meglio.

Lei ne sembrò contenta, tanto che emise una piccola risata cristallina nel rimettere il cucchiaio dentro al secchio. «L'ho aromatizzata con aloe e passiflora: dovrebbe aiutarti a stare più tranquillo.»

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