Capitolo Due

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Quando A si destò trovò due sorprese: una sveglia che segnava l'ora, le sette e quarantacinque, e un un animaletto di peluche.
Osservandolo meglio notò che era il suo orsacchiotto, Teddy. Come ci era finito lì? Quando l'avevano preso?
«Almeno non sono più sola.»
«A, è ora di fare colazione.» Brenner entrò nella stanzetta senza nemmeno bussare e con un vassoio di metallo su una mano e l'altra nascosta dietro la schiena.
La colazione era dolce, tipicamente italiana.
Nonostante tutto, A dovette ammettere che facevano del loro meglio per farla sentire a casa e apprezzava ciò.
«Non faccio colazione.» mentì magnificamente.
«D'ora in poi la farai, devi essere in forze per lavorare al meglio. Soprattutto la prima volta.»
«La... prima volta? Ce ne saranno tante altre?»
«Finché non sarai stabile.» cercò di tranquillizzarla il dottore.
Lei strinse l'orsacchiotto al petto e iniziò a piangere.
«Mi faccia tornare a casa, la prego.» scongiurò la bimba.
«Non posso, A. Proprio non posso e mi dispiace tanto.» le sorrise triste il dottore, ma non la guardò negli occhi, non lo faceva praticamente mai.
«Ma perché mi tiene qua? Perché?»
«Sei speciale. Te lo devo ripeter ancora?»
«Intendevo oltre a quello.» chiarì lei.
«Informazione classificata.» si guardò intorno il dottore.
La bambina scorse una telecamera con una spia rossa lampeggiante.
Si avvicinò a Brenner e sussurrò: «Ordini dall'alto?»
Il dottore annuì impercettibilmente.
Allora lei prese il cornetto e lo mangiò voracemente e poi bevve il latte tiepido in un sol sorso. Credeva che obbedendo sarebbe uscita prima da lì.
«Brava bambina.» sorrise Brenner. Poi da dietro la schiena fece apparire una piantina con i fiori rossi e arancioni.
«So che sono i tuoi colori preferiti.»
«È bellissima.» si trovò a dire A mentre toccava le foglioline verde brillante.
«Vuoi prendertene cura?»
«Certo.»
«Allora seguimi.» le tese la mano come il giorno prima e lei la prese senza fare storie.
Camminarono lungo tre corridoi, svoltando di volta in volta e arrivarono in una stanza simile alla camera della bimba.
C'erano un tavolo, una sedia e delle bacinelle con dentro acqua e terra e una scatola di fiammiferi.
«Siediti A.» le disse il dottore.
La mora eseguì e degli infermieri le misero degli elettrodi sulla testa e sul petto per monitorare le attività cerebrali e cardiache.
Il dottor Brenner e gli infermieri entrarono in uno stanzino che li separava da A mediante un vetro temprato e specchiato.
«Bene, ora concentrati a muovere l'acqua senza toccarla. Poi passa alla terra. So che puoi farcela.»
La bimba si concentrò e, dopo svariate ore di tentativi, sollevò una pallina d'acqua gocciolante.
I macchinari suonavano incessantemente e dal naso della bambina uscì una goccia di sangue, ma lei non se ne curò minimamente.
Più si concentrava più la pallina si ingrandiva e diventava più compatta e meno gocciolante, fino a che la sfera non diventò di ghiaccio.
«Ottimo. Ora prova con la terra.» ordinò Brenner parlando dal microfono dello stanzino.
La bimba eseguì anche quell'ordine e, dopo aver tolto l'acqua in eccesso, la terra divenne roccia dura e integra e che non si sbriciolava più.
Brenner notò che ci aveva messo di meno per solidificare la terra, ma ci aveva messo pur sempre più di due ore .
«Ora accendi i fiammiferi senza toccarli.»
«Ma-» cercò di opporsi la piccola, ormai stremata.
«Fallo, A.» disse perentorio il dottore.
Quegli esperimenti li aveva fatti da piccolina in Italia, ora lo ricordava. Ora capiva perché era speciale.
«Va bene.»
Fissò i fiammiferi e sentì i macchinari aumentare di rumore.
Poi d'un tratto, dopo un'ora abbondante, gli stecchini di legno presero fuoco.
A sollevò dell'acqua dalla bacinella e spense il fuoco che rischiava di divampare e fare danni.
«Bravissima A.» disse Brenner. «Ora prova a creare una corrente d'aria.»
«Non ce la faccio più.» disse la bimba con il viso bianco cadaverico.
Si asciugò il sangue che le colava dalla narice sinistra e cercò di alzarsi, ma svenne e cadde come un corpo morto.

«A, svegliati.» si sentì chiamare A.
La bimba si alzò piano e si toccò la testa dolorante.
Poi vide Brenner.
«Dottore, ora ho capito cosa intendeva con "speciale". Ora ricordo: ho fatto questi esperimenti quando avevo all'incirca due o tre anni.»
«Bene, non pensavo di farti addirittura regredire fino a quell'età, molto bene.» guardò l'orologio.
«Ora ti potrai riposare nella Stanza Arcobaleno, abbiamo passato tutta la mattina qui dentro. Devo dire che gli esperimenti sono ben riusciti e che per la tua età sei già parecchio stabile.»
«Quindi potrò tornare a casa molto presto?»
«Non penso, no.»
La bimba si intristì.
Entrò nella Stanza Arcobaleno e trovò Peter, che muoveva le palline metalliche nel labirinto con la mente.
«Anche tu sei speciale!» esclamò la mora indicandolo.
«Non lo sapevi?»
«No. Tu hai un numero o una lettera? Sei tu Uno?»
«No. Io ho il mio nome, io sono solo Peter.» mormorò concentrato sulle due palline.
«Perché tu hai il tuo nome e io no?»
«Non lo so.» fece spallucce lui noncurante. Non gli importava poi un granché.
La bimba sbuffò.
«Secondo te anche io so muovere le cose con la mente?» domandò curiosa.
«Perché non fai una prova?» le chiese il ragazzino
La bambina accettò, nonostante fosse svenuta poco prima. Si concentrò sulle palline e immaginò di muoverle.
Immaginò di essere al mare, a casa, con mamma e papà: i ricordi felici le davano forza.
Una goccia di sangue le scese dal naso e le palline iniziarono a muoversi come voleva lei, fino a scontrarsi nel mezzo del labirinto.
«Brava A.» si complimentò Peter. Era sempre composto e impostato, anche quando era contento; sembrava molto più grande e dimostrava molta maturità per essere un ragazzino di dodici anni.
«Ah! Ce l'ho fatta, sì!» esultò la piccola, che si mise a saltellare per tutta la Stanza ma che si fermò a causa di un capogiro.
«Ehi, attenta. Hai sprecato molte energie, non dovresti saltellare così.» la sorresse Peter.
«Hai ragione, Peter. Scusa.»
«Non devi scusarti, cara A.» le sorrise placidamente. Parlò con quel suo tono calmo che tranquillizzava sempre A.
Il ragazzino la accompagnò al tavolo da disegno e la fece accomodare sulla sedia metallica.
«Ecco fatto.»
«Grazie.» gli sorrise e poi iniziò a disegnare.
Disegnò il volto dei suoi genitori, dei suoi nonni, dei suoi amici circondati da un campo di girasoli e papaveri. Era molto brava e i disegni somigliavano parecchio alla realtà.
«Chi sono?» la voce del ragazzino la fece sobbalzare.
«S-sono i miei famigliari e i miei amici.» balbettò ancora spaventata.
«Oh.» si rabbuiò lui.
La bimba sbirciò il suo disegno: era una vedova nera. Poi pensò che non avesse mai avuto amici, e che sembrava tremendamente solo ma allo stesso tempo sembrava stare bene in quella solitudine. Infine si ricordò di come fosse finito lì e della sua famiglia distrutta.
«Ti va di giocare a scacchi?» chiese per distrarlo dai suoi ricordi.
«Sai giocare?»
«No, non ho ancora imparato.»
«Allora ti insegnerò io.»
Si sedettero al tavolo con la scacchiera e piano piano iniziarono a giocare.
«Hai i pezzi bianchi, inizia tu.»
«Questa la so!» esclamò la piccola e mosse un pedone.
Peter fece la sua mossa.
A aveva la lingua tra i denti, talmente era concentrata.
«Il cavallo si muove a elle, la torre in verticale e orizzontale e l'alfiere in diagonale. La regina può muoversi in ogni direzione e così può fare il re. Se il re è minacciato dall'avversario è sotto scacco e quando il re non può essere più difeso dai suoi pezzi allora è scacco matto. Tutto chiaro?»
«Più o meno.» mugugnò A, che era intenta a muovere un cavallo in diagonale.
«No, devi muoverlo ad elle, così.» le mostrò come fare.
«Oh, scusa.»
«Non fa nulla, è la prima volta, no?»
«Già.» annuì lei.
Passarono due ore a giocare e A fece qualche piccolo errore, venendo ripresa bonariamente da Peter.
«Scacco matto. Ho vinto.»
«Era abbastanza scontato: io non so giocare.» mise il muso la piccola.
«Vedrai, col tempo migliorerai e forse riuscirai a battermi. Forse» rimarcò il "forse" con una nota di egocentrismo.
«Bambini, è ora di tornare nelle vostre stanze per la cena.»
«Va bene, papà.»
«Sì, dottore.»
Peter e A si salutarono e ognuno si recò nella propria stanzetta.
Finito di mangiare si lavarono i denti e si misero a dormire, entrambi con un lievissimo sorriso a dipingere il volto stanco.

Luce dei miei occhi || Ax001Where stories live. Discover now