Capitolo Tre

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A soffriva ancora la mancanza dei genitori, ma si stava abituando a quei laboratori anche grazie a Peter e ai suoi modi, seppur un po' freddini, gentili.
Ormai era lì dentro da una settimana.
«Buongiorno A, sei pronta per la lezione di oggi?»
«Sì, dottore.»
«Non riesci proprio a chiamarmi papà, eh?»
«No, perché io un papà ce l'ho e mi aspetta a casa. Sento che tra poco potrò uscire di qui.»
«Questo lo vedremo, piccola A.» le carezzò la testa. Ogni volta che le parlava distoglieva lo sguardo, sapeva che fosse in grado di capire se stesse mentendo solo da un'occhiata.
Quella bambina non avrebbe più rivisto i suoi adorati genitori, almeno non in quella vita.
La prese per mano e la condusse nella solita stanza con il vetro che li divideva.
Ma stavolta, il dottore, si sedette su una sedia di fronte alla piccola dai boccoli mori.
Le furono attaccati i soliti elettrodi a capo e petto.
«Oggi metteremo in pratica la visualizzazione, come abbiamo fatto ieri.»
«Okay.» A chiuse gli occhi.
«Bene, cominciamo.» Brenner prese un foglio e iniziò a scrivere delle parole.
«Riesci a leggere quello che ho scritto?» chiese piegando il foglio a metà.
«"Si sta come d'autunno sugli alberi le foje." C'è anche un errore di scrittura: è foglie con -gli non con la J.»
«Bravissima. In effetti l'italiano non è il mio forte.» ridacchiò lui.
Anche la bambina rise.
«Ora... riesci a visualizzare cos'ho scritto di nuovo?»
«Ha disegnato una casetta: i muri sono marroni, le finestre azzurre, la porta verde e il tetto rosso. C'è anche il sole coperto da una nuvoletta grigia.»
«Perfetto, davvero ottimo.» si complimentò il dottore.
«Sono stanca.» disse la bimba aprendo gli occhi e asciugandosi il sangue che le colava dal naso. Erano ore che si esercitava.
«Un ultimo sforzo. Devi trovare il signor Phil, l'inserviente.»
«Va bene.» chiuse nuovamente gli occhi e cercò di visualizzare l'uomo alto e magro che spesso scortava lei e Peter nelle loro stanze.
«Lo vedo.» disse.
«Cosa fa?»
«Non fa nulla. È seduto a guardare...» tentennò un po', non vedendo bene gli schermi. «Ci sono: sono le registrazioni delle telecamere, ci siamo anche noi, quarto schermo a destra della seconda riga.»
«Impressionante, dico davvero.» borbottò Brenner.
«Sono stabile?»
«Non ancora. Pazienta un po', A.»
Erano sette giorni che diceva quella frase, sempre distogliendo lo sguardo: la mora sospettava stesse mentendo, ma non potendo guardarlo negli occhi non ne aveva la certezza: un altro potere, scoperto da poco, era quello di poter decifrare lo sguardo delle persone e capire se mentissero oppure no. Da quando Brenner l'aveva scoperto non guardava più in faccia e direttamente le sue due cavie, li guardava con la coda dell'occhio o attraverso i vetri specchiati delle stanze.
«Vieni, A, ti porto a giocare.»
«Non mi sento molto bene, posso andare nella mia stanza?»
«Certo, tutto quello che vuoi, piccola.» la prese per mano accompagnandola nella sua stanza.
Qui la bimba saltò subito sul letto abbracciando il suo orsacchiotto e chiuse le palpebre.
«Sogni d'oro, A» disse il dottore coprendola con la sua coperta a pallini colorati che le aveva portato come regalo.

Da quel giorno ne passarono altri ventuno, tutti con la stessa routine quotidiana.
Peter e A erano ogni giorno più legati da un filo sottilissimo che andava man mano ad inspessirsi.
«Quando il signor Graham ti porterà nella tua stanza digli di stare male. Percorri il corridoio e varca la porta grigia, ti troverai nel locale caldaie. Io sarò lì ad aspettarti.» questo le disse Peter un giorno, il ventottesimo, nella Stanza Arcobaleno.
«Perché?» chiese la bambina.
«Cercheremo i tuoi genitori: ho paura che gli sia successo qualcosa.»
«Non capisco... Perché vuoi aiutarmi a trovarli, cosa t'importa di loro?»
«Beh, di loro non molto, ma di te m'importa un poco. So quanto ci sei legata e se per vederti felice tutto ciò che devo fare è trovarli, allora lo farò. Ma ho bisogno di te, della tua visualizzazione, che è più potente della mia.» Disse sincero come mai prima d'ora. O forse non del tutto.
«Peter, menti?»
«No!» negò il ragazzino.
«Peter, ricorda che lo posso vedere chiaramente.» gli sorrise la più piccola.
«E va bene, c'è dell'altro, ma te lo dirò quando non saremo sotto il tiro delle telecamere.»
«Okay.» annuì lei.
Poco più tardi, l'inserviente vestito di bianco fece il suo ingresso e prelevò la bambina.
«Mi gira la testa, posso andare in infermeria?» chiese la piccola cercando di fingere il meglio possibile.
«Mh.» grugnì l'uomo facendo dietrofront e avviandosi verso l'infermeria.
A scappò immediatamente e corse per tutto il corridoio, fino alle porte che aprì silenziosamente.
Si trovò nel locale caldaie e cercò il suo amico.
«Quaggiù, A.» la chiamò il ragazzino.
Era accovacciato davanti a un tubo dal diametro non molto grande, ma abbastanza largo da farci passare uno delle dimensioni di un bambino di sette anni.
«Cosa fai qui?»
«Lo vedi questo tubo? Questo è il lasciapassare per la nostra libertà.»
«Vuoi scappare?»
«Papà ci sta segregando per i suoi sporchi esperimenti, è ovvio che voglio andarmene da qui.»
«Ma prima dobbiamo trovare mamma e papà...»
Peter annuì: «E lo faremo, non ti preoccupare.» le fece una dolce carezza sulla testa. La cosa stupì parecchio entrambi.
«Sei pronta?» le domandò facendo finta di nulla.
«Sono nata pronta.» lo sfidò con lo sguardo la più piccola, ricevendo un sorriso da parte del più grande.
«Bene, ora ricorda che devi trovare i tuoi genitori. Memorizza per bene i loro volti e cercali.»
A era seduta per terra ad occhi chiusi.
«Vedi niente?»
«Ancora niente.» Continuò a cercare in lungo e in largo.
Poi in mezzo a tutto quel nero vide del rosso vivo sparso a terra.
«Ho trovato qualcosa.»
«Che cosa?»
«Mamma e papà. Si tengono per mano e sono a terra... in un lago di sangue.»
«A, vieni via da lì.» le ordinò Peter; non doveva vederli così, pensò lui.
«Respirano ancora e c'è un'ambulanza. Li stanno portando via.»
«A, apri subito gli occhi.»
«Mamma sta avendo uno scompenso cardiaco.»
«A!» urlò Peter.
La bimba spalancò gli occhioni grigi colmi di lacrime.
«Shh, è tutto okay. Vedrai che staranno bene.» Peter le si avvicinò piano e le carezzò i capelli. «Tranquilla, piccola A.»
«Come posso stare tranquilla?! La mia mamma e il mio papà stanno praticamente morendo!» urlò a pieni polmoni.
«Se sono forti come te, allora ce la faranno.» Cercò di calmarla il più grande.
«Tu dici?» si asciugò le lacrime.
«Certo. Ora torniamo nelle nostre stanze.»
«Va bene.»
Tornati nelle loro stanze si sdraiarono entrambi sui loro letti.
A pensava ai suoi genitori e le veniva solo da piangere e urlare.
Peter invece sembrava apatico, non esprimeva nessuna emozione; all'interno, però, era tutto un subbuglio: A, i suoi genitori, cosa rischiavano essendo scappati dagli inservienti...
Fortunatamente non c'erano telecamere lungo i corridoi, anzi, la sicurezza lasciava un po' a desiderare per essere una struttura governativa.
D'un tratto le porte delle due stanze vennero spalancate e i due ragazzini speciali vennero addormentati con dell'anestetico.
Si svegliarono su due lettini chirurgici, uno accanto all'altra.
«Cosa succede?»
«Non lo so.»
«Succede che avete disobbedito ad una regola fondamentale: non andare in giro per i laboratori.» scandì Brenner, camminando avanti e indietro nella sala operatoria.
«Quindi da oggi ci saranno più telecamere e guardie della polizia militare anche all'interno del laboratorio. In più verrete controllati dal Soteria, un piccolo dispositivo sottocutaneo che vi priva dei vostri poteri e che vi traccia in ogni istante.»
«Senza i nostri poteri a che le serviremo?»
«A nulla, ma non voglio uccidervi, non preoccupatevi. E poi ho trovato altre cavie per i miei esperimenti.»
«Quindi noi siamo solo cavie? Lei è una cattiva persona!» urlò la piccola.
«Come sei tenera, A. E se vuoi una risposta, sì, siete solo delle cavie. Ah, dimenticavo di dirvi che verrete puniti per la vostra disobbedienza.» Fece un cenno agli inservienti che misero due collari ai due ragazzini.
«Accendeteli.» Ordinò il dottore.
Immediatamente i due sentirono una forte scossa che partiva dal collo e raggiungeva tutto il corpo.
Iniziarono ad urlare doloranti come due forsennati per interminabili secondi, mentre il voltaggio aumentava sempre di più, provocando dolori infernali.
Alla fine svennero dal troppo dolore e dallo shock.
«Portateli nelle loro stanze.»

Luce dei miei occhi || Ax001Where stories live. Discover now