Capitolo Cinque

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A rimase di sasso a quell'uscita: Peter Ballard che diceva qualcosa di estremamente dolce era un miracolo.
«Peter...»
«Scusa, non dovevo.» ed ecco un altro miracolo: le scuse di Peter Ballard.
«Non devi scusarti, davvero. È che non me l'aspettavo proprio, tutto qui.» poi si sdraiò supina e iniziò a contare le stelle di carta colorata fatte da lei alcuni anni prima e che il dottore aveva permesso di far appendere al soffitto. Abbracciò il suo orsacchiotto, che le continuava a dare sicurezza e la faceva sentire vicina ai suoi genitori nonostante l'età.
«Vuoi che resti finché non ti addormenti?»
«Come sempre.» sorrise lei.
«Fammi un po' di spazio.» disse spingendola via.
«Ma devo cascare dal letto?» lei allargò le braccia e lo guardò con rimprovero.
«Tranquilla, ti tengo io.» le fece l'occhiolino lui.
La mora arrossì e quasi cadde dal letto veramente.
"Okay, si sta comportando in modo molto strano." pensò mentre si risistemava sul materasso non troppo morbido.
«Peter, che hai? Sembri strano.» chiese infatti.
«Nulla, solo che oggi mi sento, come dire... felice. Almeno credo.» ed ecco il terzo miracolo: Peter Ballard provava, finalmente, un'emozione vera e precisa.
«Penso sia colpa tua, sai?»
«Colpa? Semmai merito! Non ti piace essere felice?»
«Non lo so, è la prima volta che mi sento così. Mi sembra quasi di essere libero da delle catene che non sapevo nemmeno di avere.»
«Fantastico!» lo abbracciò.
Lui si irrigidì: odiava il contatto fisico, ma il tocco della ragazza non fece altro che farlo sentire ancora più felice.
Sentì il groppo in gola che aveva da anni sciogliersi in un batter d'occhio.
Provò mille sfaccettature della felicità nell'arco di un minuto e la cosa lo fece sentire strano, molto strano. Eppure quella sensazione di estraneità gli piaceva molto.
Non aveva più paura di perdere il controllo di se stesso: provare emozioni significava essere liberi, questo aveva capito. E per lui la libertà era la cosa più importante, soprattutto perché gliel'avevano tolta e lui la rivoleva.
Ricambiò l'abbraccio, seppur incerto: non si ricordava l'ultima volta che lo avevano abbracciato.
Iniziò ad accarezzare i capelli della mora pian piano, districando anche qualche nodo. Sentiva una strana sensazione a livello dello stomaco, quasi fosse tutto in subbuglio.
Si ritrovò a guardare il profilo del viso di A, pensando fosse bellissima. A quel pensiero non fece altro che distogliere lo sguardo: quella era la prima volta che provava emozioni forti e positive, fino a quel momento aveva solo provato odio nei confronti di Brenner.
«A, puoi girarti un momento?»
«Che succede?»
Peter non le diede il momento di capire nulla, che senza preavviso la baciò.
Fu un bacio impacciato, quasi fanciullesco, infatti era il primo bacio di entrambi.
Si staccarono poco dopo, rossi e felici.
Peter aveva un sorriso sincero che andava da orecchio a orecchio.
«Peter... scusa, io-»
«Sono stato io a baciarti, A. E non me ne pento.»
La mora gli sorrise e si accoccolò al suo petto.
Lui la strinse a sé, sempre un po' impacciato, ma anche più sciolto rispetto a prima.
«Le telecamere! Brenner ci avrà visti!» saltò in aria totalmente a caso A, vedendo la luce rossa lampeggiante.
«Tranquilla, ci penso io.» le disse per calmarla.
Pochi minuti dopo si addormentano abbracciati.

Il giorno dopo si svegliarono quasi nello stesso momento, destati dalla sveglia di A.
«Buongiorno.» disse Peter con la voce impastata dal sonno e i capelli biondi arruffati.
«Ciao. Ci siamo addormentati insieme ieri sera?»
«Sembra proprio di sì.» prese il mento di A tra il pollice e l'indice e le schioccò un dolce bacio sulle labbra.
Gli piaceva da matti la sensazione che gli lasciava baciarla e non voleva perdere occasione per farlo.
«Andiamo, o Brenner ci punirà.»
Uscirono dalla stanzetta tenendosi per mano ed incapparono subito nel dottore e in altri due inservienti.
«Prego, vogliate seguirmi.» indicò con la mano il lungo corridoio.
I due ragazzi camminarono fino a raggiungere una saletta leggermente buia.
A cercò di fare dietrofront ma l'inserviente più robusto la fermò.
«Entra, signorina.» La spinse verso la stanza, su una sedia, dove la legò stretta stretta.
Lo stesso fece l'altro inserviente con Peter, il quale non si ribellò: sapeva che fosse inutile.
«Avete disobbedito ad una regola molto importante: quella di dormire in stanze separate. In più vi siete scambiati effusioni a dir poco stomachevoli, cosa che non mi aspettavo da te, Peter.»
«Punisci me, lei non c'entra niente.» la difese.
«Ora ti metti a difendere gli altri? Ma che tenero...» sputò acido il dottor Martin Brenner.
«Preparate l'elettroshock, puntatelo su 30 milliampere.»
«Papà, ci vuoi uccidere? Non ti serviamo più?» chiese Peter mascherando il terrore che provava, fino a prova contraria era lui a controllare se stesso.
«No, ma voglio punirvi come si deve. Prego, Alec.»
L'uomo posiziono gli elettrodi sul capo dei due giovani e accese la macchinetta, dando una scossa ogni decimo di secondo.
A urlò fortissimo, dato che lei era molto sensibile all'elettricità, mentre Peter sopportò nel più religioso silenzio.
«Molto bene, vedete di non disobbedire mai più. Sono stato chiaro?»
I due, stremati, annuirono debolmente.

Passarono settecentotrenta giorni da quel momento.
I due avevano pianificato una fuga dai laboratori di Hawkins, ma dovevano mettere al corrente anche la piccola Undici, che avrebbero portato via con loro.
«Finalmente troverò i miei genitori.» borbottò A mentre con Peter sorvegliava gli esperimenti che si esercitavano ad accendere le lampadine: rimaneva l'esperimento preferito da Brenner.
«Perché spreca tanto tempo con lei?» chiese Due a Tre.
«Ehi, silenzio.» li ripresero Peter e A.
Undici faticava come sempre ad accendere le lampadine, così Brenner le si avvicinò e le sussurrò qualcosa all'orecchio, che a quanto pare incoraggiò la piccola e fece splendere una lampadina.
Peter e A si guardarono contenti e soddisfatti.
«Ora che facciamo, intendo con la piccola?»
«Le parlerò io, nella Stanza Arcobaleno.» disse Peter ad A, mentre si recavano nella Stanza appena citata.
«Va bene.»
La bambina andò verso il tabellone con i dischetti rossi.
I due ragazzi la guardarono, fino a che Peter non le si avvicinò.
«A che numero vuoi che arrivi?»
«Al tre.»
Si sedette accanto alla bimba.
«Sai, a volte, è utile fare un passo indietro. Liberare la mente.»
La piccola lo guardò e reinserì il dischetto rosso in cima al tabellone.
«Testarda, eh? Sai, mi ricordi una persona che conoscevo molto bene. Riesci a indovinare chi?» Peter prese un dischetto e lo posizionò sotto l'uno.
Ad A, che stava osservando, si accese un campanello d'allarme.
«Uno? Papà dice che non-»
«Esiste? Lo so.»
La bambina si guardò intorno.
«Posso dirti un segreto? A volte, papà non dice la verità. Ho passato anni con Uno. Proprio qui, in questa Stanza»
«Ora dov'è?»
«Meglio dirtelo un altra volta. La sua storia è parecchio complessa. Ma era molto simile a te, gli risultava tutto difficile. Poi è entrato qui e le cose sono cambiate. Gli chiesi cosa fosse successo e lui disse che era riuscito a capire, che aveva trovato la forza in un ricordo del passato che lo faceva sentire triste, ma anche arrabbiato. Tu hai un ricordo così?»
Undici scosse la testa.
«Ricordi quando ti è venuta a trovare una strana donna? Ti ha chiamata con un nome. Quella donna era tua madre.»
«Mamma è morta avendo me.»
«Chi te l'ha detto?»
«Papà! Che non sempre dice la verità.»
Peter le lanciò un'occhiata eloquente.
«Questo posto e le persone qui dentro, non sono ciò che pensi.»
A sgranò gli occhi: che significavano quelle parole?
Quando Peter si risistemò accanto a lei glielo chiese.
«Ora che fai? Origli?» chiese freddamente.
«No, ma non ho potuto fare a meno di sentire. Quindi tu conosci Uno?»
«Sì, se n'è andato prima che arrivassi tu.» guardò dritto davanti a lui.
«È morto?»
«No. Ma possiamo considerarlo tale dal momento che non è più libero.» la guardò dritto negli occhi grigi.
Diceva la verità.

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