Capitolo Quattro

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Erano passati seimilacinquecentosettanta giorni, era il 1977.
A era diventata una bella giovane donna di ventisette anni, portava i capelli lunghi fin poco sopra le spalle, mossi come sempre e i suoi occhi grigi non avevano perso la loro bellissima luce; Peter aveva compiuto da poco i trenta anni, i capelli, col tempo, si erano schiariti fino a diventare di un bel biondo, mentre gli occhi erano gli stessi azzurri e spenti di sempre.
Erano diventati inservienti anche loro e lavoravano con le nuove piccole cavie che a differenza loro erano rasate quasi a zero. Vestivano sempre di bianco e potevano tranquillamente mimetizzarsi con i muri di quei laboratori.
«Due, al tuo posto.» Lo riprese A, che aveva mantenuto il nome da prigioniera.
Il ragazzino era andato ad infastidire il piccolo Quindici, che giocava tranquillamente con un puzzle interamente bianco.
«Scusa, A.»
«Non fa niente, ma vedi di non infastidire più i tuoi fratelli e le tue sorelle.» gli sorrise con fare quasi materno.
La giovane era diventata una specie di punto di riferimento per i bambini del dottore, i quali venivano trattati come se fossero suoi fratelli di sangue.
Peter aveva legato particolarmente con Undici, una bambina che aveva problemi a manifestare i suoi poteri; infatti era seduto con lei a giocare a scacchi.
Undici era la preferita anche di A, perché era molto tranquilla e pacata e sopratutto le ricordava se stessa da piccola e i suoi primi esperimenti a Roma, quando faceva fatica anche ad accendere una semplice lampadina. I due ragazzi l'avevano presa sotto la loro ala protettiva, e per questo spesso venivano usati i taser su di loro, in particolare su Peter che era quello che aiutava maggiormente la bimba di sei anni.
A controllava che tutti i bambini si stessero esercitando a giocare con i loro poteri e non li perdeva di vista neanche un momento, come le aveva ordinato il dottore.
Dottore che entrò nella Stanza in quel momento.
«Buongiorno, bambini.» salutò: col tempo s'era intenerito, ma solo con i nuovi esperimenti.
«Buongiorno, papà.» risposero in coro e distribuendosi in due file di lato a Brenner.
«Siete pronti? Oggi faremo un gioco con le lampadine.»
«Sì, papà.» risposero nuovamente in un allegro coretto.
«Bene. Nove, puoi aprire la porta?»
Nove aprì la porta metallica e tutti gli occupanti della stanza uscirono, inservienti compresi.
Si recarono in un ambulatorio piastrellato di nero e con uno strano marchingegno con tante lampadine posto al centro della stanza.
«Bene, bambini: oggi proverete ad accendere queste lampadine e farle brillare ad intermittenza con la vostra mente, come abbiamo già provato le altre volte. Sono sicuro che ci saranno molti miglioramenti.»
Uno ad uno si sedettero sulla sedia davanti alle lampadine e, a turno, i due inservienti posero gli elettrodi sul capo delle piccole cavie.
«Non preoccuparti, Undici, devi solo concentrare tutte le tue energie in quello che fai. Pensa ad un ricordo felice.» le consigliò A, mentre le metteva gli elettrodi. Tutti gli altri, chi più e chi meno, erano migliorati, anche i più piccoli. Undici era quella messa peggio, dato che non riusciva nemmeno a far scattare una misera scintilla.
«Va bene.» annuì la bambina.
Si sforzò all'inverosimile ma non riuscì a far scintillare nemmeno una lampadina, nemmeno per sbaglio. Forse non aveva ricordi felici, dato che era nata praticamente nei laboratori e non aveva mai conosciuto sua madre, pensò A stringendo le mani fino a farsi male ai palmi con le unghie, guardando di traverso il dottor Brenner.
«Riprova.» ordinò il dottore.
La bambina eseguì l'ordine, ma non riuscì nemmeno quella volta e neanche le due successive.
«Basta così.» soffiò insoddisfatto l'uomo dai capelli ormai bianchi.
«Non abbatterti, piccola. Vedrai che la prossima volta ce la farai.» le sussurrò A.
La castana annuì con le lacrime agli occhi, si sentiva inutile e sbagliata.
«A, puoi rimanere un secondo qui?»
«Sì, dottore.»
I bambini uscirono seguiti da Peter.
«Ho visto che hai una preferenza tra tutti, vorresti spiegarmi come mai?» parlò lentamente Brenner.
«Non ho una preferenza, dico davvero, è solo che quella bambina mi ricorda me stessa da molto piccola.»
«In che senso?» chiese il dottore con curiosità.
«Anche io avevo qualche problema ad accendere le lampadine e a spostare gli oggetti e avrei voluto una mano. Le sto solo dando l'aiuto che avrei voluto io.»
«Mh, bene. Allora ti chiedo di starle accanto il più possibile, perché detesto sbarazzarmi dei miei bambini.»
«Come, prego?» la mora spalancò gli occhi, credendo di avere frainteso.
«Hai capito bene, signorina, non lo ripeterò.» sorrise sardonico.
«Perché dirmelo?»
«Volevo solo metterti in guardia. Puoi andare. Oh, non farne parola ad anima viva o morta che sia.»
Lei annuì spaventata.
La ragazza tornò nella Stanza Arcobaleno a grandi e affrettate falcate non voltandosi mai.
«Ehi, come mai sei pallida?» Peter le toccò delicatamente la guancia.
«Pallida? Sarà un calo di zuccheri, niente di strano.»
«Sai che riesco a capire se menti anche senza i miei poteri?» Le sussurrò a pochi centimetri dall'orecchio per non farsi sentire dalle altre cavie.
«Non è nulla, davvero. Non insistere, Peter.»
«Va bene, A, come vuoi tu.» si allontanò repentinamente dalla ragazza.
Lei si sentì come svuotata e desiderosa di avere un contatto più prolungato con il ragazzo.
"Ma che mi salta in mente...?" si chiese scuotendo il capo e diventando rosa sulle guance.
«Ora sei rossa.» ridacchiò il biondo.
«Peter...» lo riprese con un sorriso A.
«Va bene.» ricambiò il sorriso lui, poi le diede un bacio sulla fronte, per prendersi gioco di lei.
La ragazza diventò letteralmente bordeaux.
«A, ora sei-»
«Peter!» disse in un gridolino strozzato.
«Okay, okay.» rise di gusto lui.
Era consapevole dell'effetto che da un anno a questa parte faceva sulla mora, ma ciò che lei non sapeva era che era validissimo anche l'opposto; infatti da più o meno lo stesso periodo di tempo anche il quasi apatico e freddo Peter si stava sciogliendo davanti agli occhi grigio perla della ragazza. Solo che lui era talmente impostato da non arrossire praticamente mai.
Poco dopo rientrarono tutti nelle proprie stanze.
A si mise il pigiama bianco che indossava tutte le sere per andare a dormire e andò in bagno per lavarsi i denti.
Sentì bussare alla porta metallica laterale, quella vicina al letto, l'unico regalo che il dottor Brenner aveva concesso ai due ragazzi.
«Avanti!» gridò dal bagno, già sapendo chi fosse.
Sputò il dentifricio nel lavandino e si sciacquò la bocca con dell'acqua gelida, poi si asciugò con l'asciugamano.
«Buonasera.» Peter le porse dei fiori di carta colorata, per essere precisi erano papaveri rossi e girasoli.
«'Sera. Grazie, come facevi a sapere che i papaveri e i girasoli fossero i miei fiori preferiti? Non ricordo di averlo mai detto...» disse pensierosa A.
«Ho visto i tuoi disegni e ci sono sempre questi fiori.» fece spallucce il biondo.
La mora sospirò: i suoi disegni erano ricordi di un passato felice e lontano diciotto anni, le faceva male ripensarci eppure non riusciva a farne a meno.
«Sei un buon osservatore, Peter.»
«Lo so.» gongolò soddisfatto, gli piaceva ricevere complimenti, soprattutto da lei.
Si sedettero sul letto della ragazza e iniziarono a parlare di tutto e di niente, di tanto in tanto si sfioravano le mani come se avessero bisogno di contatto fisico. Non era strano cercare del contatto per lei, quanto per lui: odiava essere anche solo sfiorato per sbaglio. Ma con la mora era tutto diverso: lui tentava di toccare i capelli ricci e neri della ragazza ogni volta che poteva, desiderava sfiorare la sua guancia con le sue dita affusolate, bramava di premere le sue labbra su quelle della ragazza dagli occhi grigi. Provava sensazioni che mai prima d'ora aveva provato e questo, in realtà, lo spaventava un po' dato che era un maniaco del controllo di se stesso.  
«Peter, stai bene?» chiese A.
«Certo. Stavo solo pensando a una cosa.»
«Che cosa?» inclinò il capo curiosa lei.
«Nulla, una stupidaggine.»
«Per favore, me lo puoi dire?» fece gli occhi dolci.
Il ragazzo deglutì, messo in seria difficoltà da quello sguardo quasi puerile e ingenuo.
«Pensavo al fatto che sei la luce dei miei occhi.» confessò lui candidamente.

Luce dei miei occhi || Ax001Where stories live. Discover now