Prologo

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Il cielo era coperto da nuvoloni spessi, talmente scuri da risultare minacciosi. Parevano l’ira di un Dio scontento, che cercava di nascondere agli occhi il raccapricciante evento che si stava svolgendo sulla terra. C’era poca luce, i soldati erano figure indistinte, ombre senza dettagli.  La luna non aiutava. Stava in alto nel cielo, e lui più la guardava più pensava si stesse burlando di loro. Aveva assunto un colore rossastro, come per deriderli e negare la sua luce a loro.
Se ne stava su una altura, la spada stretta nella mano sinistra. Sotto di lui grida e rumori metallici di combattimento. Yhirie, capitale di Џlsea, stava cadendo. Il suo esercito stava venendo distrutto. Pensava alle donne, agli uomini, ai bambini, agli anziani, ai malati, agli indifesi nascosti all’interno delle mura. Se l’esercito di Amhon fosse passato gli avrebbe uccisi, o peggio.  Fatti schiavi. Non avrebbe permesso che il suo popolo venisse fatto schiavo. Un re doveva proteggere. Come? Il suo respiro era calmo, le mani non stavano tremando, la sua espressione sapeva essere immutata.  Eppure lui si sentiva come se stesse per crollare, ma un re non poteva crollare. Com’è successo? Si chiedeva. Dietro di lui sapeva esserci le imponenti mura e svettante, sopra di tutto, il castello. Casa sua, il luogo dove era nato e cresciuto. Dove era nato suo figlio. Dove sua moglie era morta per darlo alla luce. Aveva trentadue anni di ricordi tra quei corridoi; cosa poteva fare per proteggerli? L’esercito nemico stava avanzato senza tregua e senza pietà. I corvi gracchiavano, i fottuti corvi erano stati la premonizione di quello che sarebbe successo; quando li aveva visti sui rami degli alberi aveva compreso. Non aveva avuto una data precisa o una ammissione di guerra, non ce n’era stato bisogno. I suoi consiglieri avevano litigato e litigato, chi affermando che i corvi stavano solo migrando, chi urlando di preparare al più presto l’esercito e chiedere rinforzi. Amhon non aveva lasciato il tempo di fare nulla. Erano arrivati con le loro bandiere nere, le armature scure che si confondevano con la notte. I corvi avevano iniziato a gracchiare fastidiosamente, non stando mai zitti.
I corvi non erano il simbolo di Amhon, erano il simbolo di Renejk. Il re. Renejk VII di Amhon era soprannominato il ‘’Corvo Bianco’’ per via della sua amicizia con i corvi, si diceva che sapeva comunicare con quelle bestie. Aveva capito subito perché del ‘’Bianco’’; un occhio di Renejk era attraversato da una lunga cicatrice, l’iride e la pupilla erano sbiadite, praticamente bianche. Per un istante, la prima volta che lo aveva visto, si era detto che quell’uomo non poteva essere poi così forte, la sua vista era limitata. Quanto si era sbagliato. Renejk aveva messo al tappeto un guerriero più prestante di lui in poche mosse, sbuffando annoiato. Aveva silenziosamente ammirato e apprezzato quella forza al limite del disumano.
Renejk non era solo un combattente formidabile, era qualcosa di più. E lui lo stava provando sulla sua pelle.
Due regni minori erano già stati conquistati, ora toccava a loro. Sul trono di Amhon erano sempre stati seduti re violenti e sanguinari, ma nessuno di loro aveva osato conquistare uno dei cinque regni principali. A Renejk, a quanto pare, delle regole e delle conseguenze non importava un cazzo.
Strinse l’impugnatura dell’elsa, continuando a guardare il combattimento in atto. I suoi occhi vedevano solo figure indistinte lottare tra loro, in una carneficina che pareva infinita. 
Rivolse il suo sguardo alla luna, sperando di vederla sparire. Zonàr, sorgi. Ti prego. Era un uomo di fede, ma era anche consapevole che nessun Dio muoveva le sue mani, gli Dei non era gentili. L’attenzione degli Dei doveva essere guadagnata. Sacrificherò me stesso in tuo nome, sacrificherò le bestie più maestose e rare per te, se ascolterai le mie preghiere. Rivolse le sue parole a Zonàr; strinse le palpebre urlandole nella sua testa. La luna, però, continuava a guardarlo ridente. Lo fissava dalla sua posizione privilegiata, sopra i deboli umani, macchiata dal sangue del popolo di Џlsea.
Un corvo passò sopra la sua testa, fermandosi sul ramo di un albero vicino. Una grossa e imponente quercia, su cui lui da piccolo si era divertito salire; si era più volte preso le ramanzine di sua madre e della sua allevatrice, erano arrivate a vietargli di avvicinarsi a qualsiasi albero dopo che si era rotto un braccio. Sorrise leggermente al ricordo. Le foglie della quercia erano rigogliose come sempre, intaccate da ciò che stava succedendo.
Udì degli zoccoli e dei passi. Si irrigidì, il sudore gli colava dalla fronte. Aveva diverse ferite e l’unico motivo per cui non crollava dalla stanchezza e dal dolore erano l’adrenalina e la sua perseveranza.
«Il Sole.» Quella voce gli mandò una scossa di gelo attraverso la schiena.
Si girò con lentezza e dovette farsi violenza per mantenere la maschera, per far in modo che il suo viso non mostrasse nessuna emozione. Suo figlio, suo figlio era in piedi davanti a lui, tenuto fermo da un paio di mani sulle spalle. Khali aveva gli occhi lucidi da lacrime trattenute, la bocca socchiusa da cui non usciva nessun suono, come dal giorno in cui era nato. Renejk stava dietro di lui, le forti mani coperte dai guanti neri della armatura. Era l’essenza della tranquillità e della pacatezza, anche con il sangue che lo sporcava. Si era tolto l’elmo, il viso pallido mostrava fierezza, un leggero sorriso a sollevargli gli angoli della bocca.
«Interessante tuo figlio, non ha emesso un verso da quando l’abbiamo catturato. Molti pagherebbero per avere un bambino così quieto.»
Aveva serrato talmente forte la mandibola da sentire dolore ai denti. «Sono io il tuo nemico.» Mandò a ‘fanculo l’etichetta, non provando nemmeno a usare il voi. Da morto a nessuno sarebbe importato della sua educazione.
Renejk lo osservava in silenzio. Poco dietro di lui due guardie stavano a monta di un cavallo, le mani destre pronte a scattare e sfilare la spada.
«Non mi chiedi del tuo popolo? Sapevo che eri un re amorevole e dedito.»
Rise, con la voglia di tagliare la testa all’uomo davanti a lui. «Conosco la tua reputazione, non mi aspetto che tu li abbia fatti fuggire.»
Il sorriso di Renejk si accentuò. «Ho voluto essere magnanimo questa volta.»
Non disse nulla, aspettando che continuasse. Non si sarebbe mai mostrato debole. Il suo silenzio parve divertire Renejk. «Ho una proposta.» Accarezzò i capelli di Khali, in un gesto di finta rassicurazione. «Inginocchiati a me, lasciami il tuo regno. Se accetterai il tuo popolo continuerà a essere libero, niente catene e niente persecuzioni. Tuo figlio sarà trattato da principe nella mia corte, sarà protetto e non dovrà mai conoscere il dolore della frusta.»
Gli occhi di Khali lo pregavano di non accettare, di non credergli.
«Mi dovrei fidare della tua parola?»
«Non hai altro. Sei intelligente re Khell, i rinforzi non arriveranno e tu hai già perso. Puoi morire qui e condannare il tuo popolo e tuo figlio alla miseria, oppure sacrificarti per loro. A te la scelta.»
C’era qualcosa, c’era qualcosa che mancava in quel quadro. Lui era all’oscuro di un pezzo importante, il suo istinto gli gridava che c’era qualcosa che non sapeva. Ma qualsiasi cosa fosse, in quel momento lui aveva tra le mani il futuro di migliaia di persone. E di suo figlio. Era il suo unico figlio, avevano fatto molta fatica ad averlo e lui lo aveva desiderato per tanto. Aveva promesso che avrebbe sempre protetto Khali.
Prese la sua decisione.

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