Scena prima

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Un lunedì mattina di gennaio. 7,45


Sembrava un sasso che cade sul velluto. Tonf. Un rumore attutito.

Ancora. Ora era più forte. Ines tolse la cuffia dall'orecchio destro.

«È tardiiiii! Prenderai un'altra nota!».

Allentò l'incrocio delle gambe e le abbassò giù dal WC, dove se ne stava seduta da una ventina di minuti almeno. Non c'era un altro posto dove stava così bene, Ines. Nella sua casa, nel mondo intero. Sospirò.

«Siamo soli in cento personalità, mentiamo promettendo a noi non finirà»

C'est la vie. Le parole fluttuavano e atterravano dentro la sua mente, delicate e impalpabili come la neve. Non aveva nessuna voglia di alzarsi di lì. Neanche di muoversi, in generale.

Si dette una sbirciata allo specchio, proprio lì di fronte: si era fatta anche carina, quella mattina. Sì, perché era sicura che sarebbe tornata. Visto dal venerdì, il lunedì era il giorno lontano, dopo la tregua del sabato e domenica. La sua scuola faceva la settimana corta, almeno quello.

Pantaloni larghi neri, le sneakers bianche. Appena sveglia - prima della sveglia delle sette, perché alle sette era lì con gli occhi al soffitto da un tempo infinito, - aveva sentito la pioggia. Quel sentore di umido penetrato dalle persiane si era insediato alle radici del naso, ben prima che Ines potesse sentirne il rumore o vedere fuori.

Aveva deciso che avrebbe indossato le sneakers bianche fin dalla sera prima. Non c'era un'altra soluzione.

Le vide, un passo dopo l'altro, in mezzo alle frotte degli umani che affollavano i vialetti d'ingresso. Le immaginò tutte schizzate di marrone. Perché non è bianca la pioggia, non fuori di scuola, neanche la pioggia fine di gennaio che sembra quasi neve sciolta.

Lo ripeteva sempre a sua madre, quando la accompagnava, lasciami vicino al portone. Già, ma c'era il giardino da attraversare, con i suoi vialetti pieni di pericoli per le scarpe immacolate. Le esaminò con attenzione. La sera prima le aveva ripassate per bene con la spugnetta bagnata, per levare qualche ombreggiatura. Che poteva saperne che il giorno dopo avrebbe fatto brutto tempo? Le solite previsioni inutili. Non ci azzeccano proprio mai.

«Ineeees!!! Ma che diavolo starai facendo ancora là dentro?»

Lei proprio non se ne faceva una ragione di come sua madre non capisse. Sua madre... perché, invece suo padre? Eppure ci viveva insieme da quindici anni. Da quando era nata.

«Mamma, proprio non ce la faccio! Ho quel mal di pancia! Come faccio a stare seduta cinque ore nel banco?»

Questo funzionava sempre. Le facevano storie, la sera: domani torni a scuola, pochi discorsi, vedi che stai bene e stasera hai mangiato, e tutte queste cazzate. Ma la mattina, come per miracolo, avevano da fare e se le bevevano tutte. Specie sua madre. Non ce la faceva a non crederle, lei. Suo padre le diceva lascia perdere, che vuoi che sia, poi le passa. Ma lei, no.

«Ma poverina! E se poi si sente male a scuola? Chi la va a prendere? Tu, che sei a mezz'ora di macchina da qui?». Eccola lì sua madre Olga, di là dalla porta del bagno.

Alla fine la lasciarono in pace, anche quella mattina.

Il suo momento. Quando la casa rimaneva vuota poteva uscire dal bagno e godersela. Era successo almeno un'altra decina di volte, prima di Natale. Il rumore della porta che si chiude. Finalmente. Le cuffie nelle orecchie, si diresse verso la cucina. Aveva proprio voglia di un bicchiere di latte bollente. Il divano l'aspettava.

Appollaiata tra i cuscini, il plaid sulle spalle, chiuse le tende del salotto e tirò giù la tapparella. Non le piaceva che dal terrazzo di fronte potessero vederla. Con il bicchiere appoggiato in terra, sul tappeto, pregustò le ore di libertà che la aspettavano. Almeno quattro: nessuno si sarebbe fatto vivo prima di mezzogiorno.

Le dita scivolavano sulla tastiera, le immagini scorrevano rapide.

Si dedicò al proprio Avatar. Leggings neri larghi in fondo, con le immancabili sneakers bianche; maglietta corta e morbida a strisce bianche e nere, perché le strisce la facevano impazzire. Capelli raccolti in una grossa e morbida onda blu elettrico, occhi tagliati all'orientale con ciglia lunghissime e iridi di un viola raro, fitte di pagliuzze grigio scuro. Le sfumature del blu, il suo colore.

Eccola là, la Ines in carne e ossa, incolore e senza forma, ammirare la Ines che se la spassava in mezzo agli altri. Faceva la sua brava figura. Le si avvicinò Marlene, la rossa riccia che faceva parte del suo gruppo, «girl friends». A Ines non piacevano balli e feste, neanche nella realtà virtuale. Preferiva gruppi femminili.

Le fece un sorriso accattivante e un gesto come a dire che era ora. Lisa, l'ultima del terzetto, al click del mouse spalancò i suoi occhi di un verde brillante: in un attimo fu in piedi. Le sfumature dorate già volgevano verso l'arancio: un'alba coloratissima annunciava una giornata di sole ai tre visi sorridenti. Pronte a ripartire.

Ines, Marlene e Lisa avevano trascorso la notte accampate in una valle riparata. Oltre la stretta gola, un paese sperduto tra i monti era stato colpito da un nemico invisibile; un sopravvissuto aveva descritto una vallata tranquilla che improvvisamente si copriva di cadaveri, senza ferite evidenti. Una sostanza tossica aveva avvelenato i pozzi. Gli abitanti cadevano a terra come birilli, uno dopo l'altro. Forse si poteva ancora salvare la valle, e poi il pianeta, prima che le profezie funeste si avverassero: non restava molto tempo, secondo gli scienziati.

Serviva un manipolo di coraggiosi da mandare in avanscoperta a raccogliere informazioni e, possibilmente, cadaveri da analizzare. Non si poteva sconfiggere un nemico sconosciuto.

Loro, le prescelte da una commissione di saggi, avevano riposato su un prato fitto e morbido come una pelliccia, una accanto all'altra. Si erano addormentate avvolte da una nota muschiata e umida, che le aveva inebriate e cullate come il seno di una madre. Il giorno dopo, le attendeva il passaggio più impegnativo, una gola stretta in mezzo ai monti che immetteva nella valle colpita dal male.

Come alle Termopili, ma Ines era Leonida, non come la regina che aveva dovuto starsene a casa a badare al regno. Era l'unica cosa che non le era piaciuta di Trecento, che avevano visto a scuola. Così, nella sua Sparta lei era Leonida, il re guerriero coraggioso e senza paura. Ma donna. Le due compagne la seguivano, fedeli compagne di ogni avventura.

Si inerpicarono per una strettoia angusta. Non sentivano il bruciore dei graffi sulla pelle martoriata dalle rocce nere di origine vulcanica, né alcun dolore sotto i piedi che si muovevano rapidi in mezzo a spunzoni e sassi acuminati. I profumi dell'aria frizzante del mattino penetravano le narici di Ines, che si sentì attraversare da una scossa elettrica dal fondoschiena fino all'attaccatura del collo.

La fetta di azzurro si stava facendo sempre più larga... di colpo, stese il braccio sinistro a far scudo alla sua truppa, Ines. Un'aquila volteggiò a pochi centimetri da loro; con la coda dell'occhio vide un nido coi piccoli, a pochi passi. Rimasero immobili, con gli occhi al terreno. Le madri di qualsiasi specie diventano aggressive, se sentono che i loro cuccioli sono in pericolo. Ines lo sapeva bene, sapeva proteggere la sua squadra.

Stava abbassando il braccio quando il cielo fu oscurato dal riquadro di una chat:

«Ehi, XCHÉ non sei venuta stamani? La prof telefona a casa vedrai».

Un groppo alla bocca dello stomaco la fece sudare sotto le ascelle, l'odore acre della paura spazzò via quello frizzante dell'alba. Solo un attimo: lasciò che la chat scomparisse come era venuta, come un cirro di passaggio nel cielo azzurro di quel mattino. Niente di cui aver paura. C'era tempo per questo, le disse lo sguardo fiero dell'altra Ines, diritto davanti a sé.

La scuola poteva aspettare: il mondo alla fine della gola stava per aprirsi di fronte a loro.

Ines di cristalloWhere stories live. Discover now