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«Capitano! Questa tempesta non sembra voler dare segno di calmarsi.»

La voce del sottoposto si sentiva a malapena, con la nave che dondolava al tocco delle onde ormai fuori controllo. I sottoposti, sebbene l'equilibrio non era utile in quel momento, davano il meglio di sé per mantenere intatta la Green Hope, una fregata lunga 140 metri e larga 18,9 metri. Gli alberi che reggevano le vele raggiungevano altezze massime di 12 metri, cigolanti e con altri tipi di suoni poco rassicuranti. Ma come mai tutta quella tempesta comparsa dal nulla? Perchè sembra che l'oceano ce l'avesse con loro?

«CAPITANO!»

Urlò Jonh, il sottotenente. Un uomo con la schiena leggermente ricurva, tesa, si appoggiava contro il timone, lo sguardo perso nei pensieri. Era come se per il capitano la tempesta fosse solo un'agitata danza mortale, la quale danzava per la vita di tutto l'equipaggio. Osservava ogni singolo sguardo del suo equipaggio. Occhi spaventati per la vita, appesa all'amo come esca per i pesci, ma speranzosi e fiduciosi. Sapevano bene che il capitano non sbagliava mai, che sapeva che cosa doveva fare.

«Chiudete le vele. Lasciate che sia la nave a cavalcare le onde. Lei sa che cosa deve fare.»

Queste furono solo le parole dell'uomo. All'inizio l'equipaggio fu instabile. Alcuni dubitarono della decisione, altri erano stati soprafatti dalla paura. Ma quando videro che anche Jonh fu convinto della decisione presa dall'uomo, annuirono, correndo verso le vele. Il capitano sapeva che se avrebbero combattuto ancora contro il vento e le onde violente, la morte sarebbe stata inevitabile. Così, chiusero le vele, stringendo e legando le corde ormai tese, e più le vele erano chiuse, più la nave riusciva ad avere controllo e dominio contro la tempesta. Cavalcava le onde come una giostra sulle montagne russe, seguendo la corrente giusta al momento giusto. Le onde aumentavano la grandezza, la rabbia contro quegli uomini che sembravano in quel momento piccole formiche. Il capitano fissava però un'onda in particolare. Era gigantesca, furibonda. Si stava scagliando contro la nave, ma con presa ferrea il capitano resse il timone, diretto verso quell'onda finale. L'equipaggio andò ad aggrapparsi alla ringhiera in legno, con la nave che prese sempre più velocità. Con l'avvicinarsi dell'onda, la Green Hope cominciò ad inclinarsi verso l'alto. Più andava, più era inclinata, fino a che non si trovarono in verticale. Molti facevano fatica a rimanere aggrappati, altri persero la presa ma atterrarono contro la parete della cabina del capitano, mentre il capitano rimase fisso immobile con la presa sul timone. Fino a che la nave sfondò la cima dell'onda, andando col muso in avanti e scivolando, come burro sulla padella, contro la cresta dell'onda.

«ORA! APRITE LE VELE MIEI UOMINI! MOSTRATE AL MARE CHE NOI NON CI ARRENDEREMO!»

Urlò con tutto il fiato del corpo l'uomo, con l'equipaggio già subito all'opera. Come aprirono le vele e le issarono, la nave prese maggior velocità, e più era veloce, più riusciva ad uscire da quella tempesta.

Quando finalmente furono fuori da quell'inferno, l'equipaggio esultò dalla gioia, ringraziando il capitano per essere riuscito a proteggere la loro vita.

«Questo ringraziamento non è solo per me, ma anche per tutti voi. Se non fosse per il vostro coraggio, per la vostra fiducia nei miei confronti, non saremmo ancora vivi per festeggiare questa vittoria. E adesso gioite mio equipaggio, perché stasera si beve!»

Il solo suono della parola "bere", per l'equipaggio fu come un miracolo sceso dal cielo. Sapevano bene che intendeva scendere a terra e bere fino a dimenticarsi delle azioni e delle parole, e il solo pensiero fu come estasi. Nel mentre l'equipaggio si mise all'opera per trovare un isola su cui scendere, il capitano lasciò il timone e si diresse verso la cabina, lasciando il posto al timoniere. Quando fu finalmente dentro e si chiuse alle spalle la porta, poté finalmente rilassarsi. La cabina in cui pernottava era di media grandezza (circa 10 metri di lunghezza per 5) ma accogliente, composta da un letto di una piazza e mezzo, una scrivania coperta da mappature di navigazione, una libreria con ante in vetro con affianco un piccolo armadio, e un secondo tavolo la quale ci mangiava. Sapendo che nessuno entrava senza permesso, poté togliersi la camicia rovinata dal mare e dagli anni, lasciandola scivolare lungo la schiena e cadendo per terra. Lungo la schiena, cicatrici di molte battaglie gli percorrevano l'ambrata pelle, con un tatuaggio situato all'altezza del petto sinistro. Rappresentava un fiore semi sbocciato, avvolto da un serpente che teneva tra i denti un pugnale. Si mise seduto sul bordo del letto, gambe spalancate e gomiti posati su di essi, mettendo una mano sopra l'altra e facendo appoggiare il mento sopra di esse. Fissava il vuoto, immerso nei ricordi di anni indietro, ricordi felici, spensierati.

«Ancora a pensarla?»

Fu la voce di Jonh che lo fece tornare a malincuore nel presente, portando lo sguardo stanco verso il giovane sottotenente. Era l'unico a sapere del perché navigavano in quell'oceano tanto pericoloso quanto letale.

«Sai bene che non voglio dimenticarla, che se troviamo quel tesoro il mio desiderio si esaudirà.»

«Lo so, ma dovresti valutare anche la possibilità che non funzioni Kyle.»

Jonh vedeva tutte le possibilità davanti agli occhi, alcune positive ma altre negative anzi, orribili. Kyle lo sapeva fin troppo bene che c'era anche quella possibilità, ma il solo pensiero gli fece ribollire il sangue.

«Forse hai ragione. Ma non mi arrenderò finché non vedrò dei risultati, e lo sai bene. Devo avere dei risultati, o questo viaggio sarà stato inutile, rischiando la vita per niente... No, dobbiamo arrivarci, a qualunque costo.»

Come poteva non ammirare la sua determinazione. Anche se molte volte lo faceva arrivare a limiti di pazienza, Jonh non riusciva ad arrabbiarsi nei suoi confronti. Lo aveva salvato da morte certa anni fa, ed in quel momento fu in debito con lui. Si mise seduto affianco a lui, schiena posata contro la parete e una mano posata sulla sua spalla, come per rassicurarlo.

«Lo so, per questo motivo ti starò affianco. Siamo partiti insieme, e finiremo insieme. Niente ci fermerà e ci cambierà idea dall'obiettivo principale.»

Saperlo fece sentire più rilassato Kyle. Sapeva che niente li avrebbe separati. Nessuna tempesta o battaglia avrebbe rotto quel legame.

«Sei un ottimo amico Jonh. Non potevo chiedere amico più fidato di te.»

Per un frangente vide Jonh irrigidirsi, cambiare espressione, ma poi tornò col sorriso a guardarlo. Dopotutto, era durato solo un frangente.

«Certamente, anche perché sai bene che se provi a sbarazzarti di me te la vedrai molto male.»

Questo era l'amico che conosceva, positivo e senza sfaccettature. Ci fu un momento di silenzio, con la tensione che si poteva tagliare con la lama del coltello, fino a che la vedetta sull'albero maestro non urlò l'avvistamento di un isola.

«Bene, tra poco scendiamo.»

«Tu vai, ti raggiungo subito.»

Lì per lì Kyle non sembrava tanto convinto a lasciarlo solo, ma poi annuì, uscendo dalla cabina e chiudendo alle spalle la porta e dando ordini all'equipaggio. Nel momento in cui Jonh fu da solo, il suo sguardo divenne più spento, portandolo verso il pavimento e chiudendo le mani a pugno. Sapeva bene che più ritardava, più lo avrebbe perso. E questo non lo avrebbe permesso.

«Presto sarai mio Kyle, stanne certo...»

𝐀 𝐬𝐭𝐨𝐥𝐞𝐧 𝐥𝐨𝐯𝐞Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora