Seconda parte

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Ora, a distrarmi, è l'ombra in più che fa capolino dalla soglia.

Nella cornice di luce, la sagoma scura di una vecchia. Non so quanto, vecchia. Di sicuro ha più anni addosso di quanti ne aveva mia madre. Indossa un lutto rispettoso, nella gonna scura e andata, nelle calze nere, forse troppo spesse, nel giacchino nero un po' troppo largo.

Quando si scosta dalla luce bruciata della soglia, provo a studiare i lineamenti. Nulla: niente che mi torni alla memoria. Anche perché io e mia madre non dividiamo chissà quanti ricordi, assieme. Credo non ne abbiamo mai avuti. Di sicuro non pubblici; io, lei e nessun altro.

Siamo sempre state sole, io e la donna che sta in quella cassa, lì dietro.

I suoi la ripudiarono quando seppero che mi portava in grembo. Se non c'era un padre, era il caso che lei sparisse, andasse lontano, non si facesse più nemmeno sentire. E lei mise l'Italia intera tra noi e loro. Lasciò tutto indietro, giù. Si nascose nelle nebbie del fiume. All'ospedale, per partorirmi, ci arrivò con la corriera; non aveva nessuno da chiamare. Ed in casa io non ricordo ci sia stato mai nessuno.

Otto anni lunghi di solitudine.

Otto anni densi di buio.

Otto anni di me, lei, e nessun altro.

Otto anni di me, di lei e della sua solitudine. Che presto, molto presto, diventò la mia. Che presto, troppo presto diventò la sua follia.

Follia; comodo chiamarla così. Il suo era puro e semplice odio. Odio verso di me. Perché, alla fine, era tutta colpa mia. Era solo colpa mia.

Al cenno educato di quella vecchia rispondo sussurrando appena un buongiorno di circostanza. La vedo muoversi verso il feretro. Si ferma di fianco alla bara. Abbassa gli occhi, si mette la sinistra sul cuore. Con la destra accarezza il legno. Con la stessa tenerezza con cui si accarezza una figlia. O una madre. Tiene la testa piegata, fino quasi a toccare il legno con la fronte. Di colpo sento le ginocchia che le scricchiolano, mentre si piega per abbracciare la bara. E i sospiri si affogano in un pianto.

Un pianto violento, feroce. Un pianto di singhiozzi e strepiti. Un pianto di grida disperate, impazzite. Urla. Urla che non sanno trovare pace. Urla e grida che rimbalzano stridule da un muro ad un altro. Urla che saettano intorno e ti pare quasi di poterle vedere. Ti sembra di guardarle che fluttuano attorno, planano nell'aria e dopo ti scendono addosso. In testa. Nelle orecchie e di lì fino al cuore, allo stomaco. Fino nella pancia.

Ogni grido di quella vecchia è uno schiaffo. Forte come le manate che la donna nella cassa usava per accarezzarmi. Ogni urlo è un terzetto di unghie sbrecciate come quelle della strega nella bara, unghie che s'infilano sotto la pelle delle braccia e corrono giù, graffiando, bruciando.

Ogni singhiozzo è un colpo che mi arriva dritto sotto il sedere come una pedata. Calci e scosse: le stesse che la puttana che stiamo accompagnando al crematorio usava per mettermi a letto e darmi la buonanotte. Ognuno di quei singhiozzi mi sbalza nemmeno fosse mio. Fino a che non mi sembra di sentirli così forte nella pancia che con tutte e due le mani corro a fare scudo alla creatura che ho dentro.

Urla, grida, singhiozzi: una nenia stonata, spaventosa, che scivola fuori nelle forme e nei suoi di una lingua che conosco. Una lingua antica. La stessa che la donna nella cassa usava per bestemmiare. Per maledire me e il suo sangue, la sua gente. La lingua antica della terra di mia madre.

Chi è questa vecchia pazza? Che vuole da qui? Chi l'ha chiamata? Chi l'ha portata fin qui? Chi le ha detto che qui c'avrebbe trovato una bara e dentro mia madre?

Della Lucania, della terra da dove mia madre era arrivata, Carlo mi aveva parlato. Ogni volta che glielo avevo chiesto. Certe usanze le conoscevo. E se adesso, accanto al feretro di mia madre, c'era una vecchia pazza che gridava e salmodiava e strepitava, voleva dire che qualcuno, dal paese, aveva pagato – e bene, profumatamente – per tutta questa sceneggiata. Una qualche sconcertante forma di rispetto funebre. Antica, quasi dimenticata, ma sempre presente. Come i fossili, i dinosauri, le vecchie foto ingiallite negli album di famiglia – tanti visi di cui quasi tutti hanno dimenticato il nome.

- Non abbiamo chiesto la Prefica, signora...

Prefiche: si chiamano così.

Non ho fatto nemmeno un passo verso di lei. Ho solo approfittato di un attimo di silenzio per sputare ad alta voce quelle poche parole. Senza mai staccare dalla pancia le mani, senza smettere di accarezzarmi il ventre. Uno scudo, incrollabile, attorno alla mia bambina.

Poche parole che, evidentemente, bastano. La vecchia recupera fiato. Abbassa ancora più la testa. Sembra quasi che accarezzi il legno con la guancia e non più con la fronte.

- Non m'ha pagato nessuno, bella mia... Non m'ha chiesto niente nessuno...

Resto interdetta. Da quella risposta e da quella confidenza. La voce di quella anziana ha la stessa inflessione di quella di mia madre. O forse è solo la memoria che si confonde, davanti a questo spettacolo.

- Ma scusi...

Inciampo nelle parole, le domande sarebbero troppe. Non so come metterle in fila. Ed è lei, sollevandosi piano, a togliermi d'impiccio.

- Non mi ricordi. Non puoi, eri troppo piccola. 

Il respiro della cenere - Archology 0.003Where stories live. Discover now