Terza Parte

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Si muove piano, verso di me. Solleva la mano a risistemarsi i capelli sotto un foulard nero. Le ciocche grigie tornano ad incorniciarle il viso. Si ferma a qualche passo. Ha un sorriso tenero, di una gentilezza antica, strana.

- Sono Benedetta, bella mia... Sono Bina. Proprio come te, sai? No: non puoi sapere. Mi faceva venire dal paese, tua madre. Venivo a tagliarti i vermi. Ti ricordi? No... Non ti puoi ricordare, bella mia. Non ricordi, vero, Benedetta?

Faccio un passo indietro, d'istinto. La vecchia ha ragione. Conosce il mio nome. Io non ricordo; questo particolare del tagliare i vermi non lo ricordo. Ma quella stronza nella bara me ne ha combinate talmente tante che ricordarle tutte sarebbe impossibile. Le assistenti sociali al processo parlarono di violenze, molestie, superstizioni.

- Eri piccola piccola. Eri sempre agitata. C'avevi tutti i demoni in corpo, nella pancia. Demoni a gomitoli, come i vermi. E io te li tagliavo... E ti calmavi. Finalmente ti calmavi. Oh, se ti calmavi. Lo sa la bella signora lì su, se ti calmavi.

Alzo una delle mani. Apro il palmo e la metto tra me e lei, come uno scudo. Come un muro che non voglio attraversi. Ma quella non vuol saperne di restare indietro. Si avvicina ancora, piano, con quella voce che è un sussurro rauco, per le grida di poco prima.

- Tre preghiere in croce. E l'olio e l'aglio sul pancino. Tre preghiere sulla punta dello spillo, bella mia. Sempre quelle. Hveh Ih Na, Santa Bina vieni qua... Ti ricordi?

No.

Non mi ricordo.

Non mi voglio ricordare.

- Hveh Ih Na, Santa Bina vieni qua... Non avere paura, bella mia. Sono cose vecchie. Vecchie come me. Vecchie e dimenticate. Come me. Come tua madre, poveretta. A che si doveva aggrappare lei? Sola, senza uomo, con una creaturina piccola che piangeva e strepitava. Senza sangue, senza affetti, senza famiglia. A quelle come tua madre, come me... Solo Santa Bina ci vuole bene.

Vorrei muovere le gambe, scartare indietro coi talloni. Spicciare passi indietro e mettere quanto più spazio possibile tra me e lei. Perché la sua voce mi spaventa. Ha il timbro basso e lontano di un passato che voglio dimenticare. Ha il graffio rauco di ricordi che scopro solo oggi di portarmi dentro... sulla pelle. Perché ogni sua parola è un'unghia che mi si conficca nella carne e strappa. Ogni respiro più a fondo. E perché ogni passo che muove, continuando a parlare, è un macigno che mi trovo artigliato alle caviglie, per impedirmi di muovermi.

Per tenermi ferma, lì dove sono, mentre lei mi arriva vicino.

Nella pancia. Me li sento nella pancia, i vermi di cui parlava. Strisciano.

Sanguisughe: si aggrappano alle pareti dello stomaco, brulicano nell'intestino.

Via, cazzo, andate via!

Le mani si muovono frenetiche sul grembo teso. Via. Vi scaccio e vi calpesto, bestie. Via, non toccate la mia bambina.

- E che bella pancia che c'hai bella mia... Che bella pancia tonda! Manca poco, è vero?

Un passo indietro. Per tenerla lontana. Per schiacciare quei vermi.

- Tonda tonda. Una femmina, pure lei.

Non mi guarda più. Abbassa gli occhi e punta la pancia. Come se fiutasse con gli occhi la vita che mi si agita sotto. E di rimando, l'esserino che mi batte sotto, comincia a scalciare. Si muove. Come se cercasse di fuggire. Scalcia disperato, come per dirmi di portarlo via, lontano. E sento di nuovo le unghie, i graffi.

Sento pizzichi e morsi che cominciano a tormentarmi. Bruciano, forte. Pungono. Mi sembra d'impazzire. E mi fa male non riuscire nemmeno a gridare. Non riuscire a muovere la mano. Non riuscire a scappare. Fa male... Fa troppo male. Come quando era mia madre a graffiarmi. Come quando mi mordeva, mi bucava con gli spilli, mi scuoteva fino a farmi sbattere la testa al muro. Com'è che diceva?

- Demonia! Carne malata! Schifosa, questo se: carne marcia e schifosa!

Quella megera poggia la mano grinzosa proprio sotto il sonaglino che scende dal collo alla pancia.

- Che peccato! Che peccato: pure tu sola. Come me. Come tua madre...

Il respiro della cenere - Archology 0.003Where stories live. Discover now