Capitolo 4

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Sapevo che dovevo ascoltare Dante quando la mattina presto, prima della scuola, quelle rare volte che passava per casa mi invitava per una corsetta insieme. Ora non avrei questa fame d'aria e non avrei il cuore a mille. Mi fermai boccheggiando e cercando di fare entrare aria nei miei polmoni che, ora come ora, sembravano due tizzoni ardenti neanche fossi stata sulla bocca dell'Etna in eruzione. Avevo intravisto, appena oltre la curva, un pezzetto di maglietta color senape uguale uguale a quella che indossava Giulia. Mi potevo permettere, quindi, di rallentare ero quasi sicura che si fosse fermata prima di entrare in casa. Forse i suoi non erano ancora usciti per andare al lavoro, pensai. Svoltai l'angolo e Giulia era lì, dove l'avevo immaginata, seduta sulla panchina scrostata di quello che tutti chiamavano giardinetto e che invece consisteva in un minuscolo pezzo di terreno ricoperto da erba gialla e secca e con un salice spelacchiato che a malapena faceva ombra alla panchina.

Mi avvicinai piano sibilando ancora aria tra i denti nel tentativo di riprendere un ritmo normale di respiro.

Giulia era sporta in avanti con la testa tra le mani. Piangeva e non mi aveva sentito arrivare o forse non voleva notare la mia presenza, cosa più probabile. Mi sedetti a mia volta di fianco a lei.

Le posai una mano sulla schiena accarezzandola piano. «Ehi.»

Lei non alzò la testa e non mi rispose. Dovevo lasciare che si prendesse il suo tempo.

Con la mano, che non accarezzavo lei, mi presi una ciocca di capelli. Erano lunghi, dorati e sapevano di cocco. Mi piacevano i miei capelli, avevo quasi un'ossessione per loro. Li spazzolavo e ci mettevo oli e creme per mantenerli perfetti facendo brontolare mia mamma che mi rimproverava di spendere un patrimonio per questo. Da piccola volevo farli crescere come quelli di Rapunzel e poi usarli per calarli dalla mia finestra per raggiungere la mia amica.

«Cosa sono io? Tu sei Sara e sei sempre stata Sara. Io no, sono un mostro come ha detto Jacopo.»

«Giulia, guardami. Non è vero!»

«E invece sì, sono Giulio perché ho il cazzo e le palle, ma non lo sono. Non lo sono mai stata, nemmeno da piccola. E allora, dimmi, chi sono io? Cosa sono io?»

La strinsi forte a me, cercando di infonderle tutto il mio amore di sorella e cercando una risposta che non la mandasse ancora più in crisi.

Il mio pensiero volò a quando eravamo piccole, cinque o sei anni io e lei ancora meno, sua mamma la lasciava a casa mia perché doveva andare al lavoro e mia mamma in quel periodo era disoccupata, lei arrivava e si fiondava dritta in camera mia. Apriva il mio armadio e cercava il vestitino da principessa che i miei genitori mi avevano regalato per mettermi a Carnevale, si toglieva pantaloni e maglietta e se lo infilava chiedendomi di allacciarglielo sulla schiena.

«Sono bella?» mi chiedeva pavoneggiandosi nello specchio della mia cameretta. La pelle color cioccolato al latte risaltava contro il rosa del vestito, i riccioli scuri, scappati dalla corona da principessa che corredava il costume, le incorniciavano il viso dove spiccava un enorme sorriso.

Era bellissima. Una vera principessa.

Non si toglieva quel vestito per tutto il tempo che rimaneva da noi. Mia madre non si preoccupava, era un gioco come lo era quando io fingevo di essere un cavaliere di re Artù.

Solo che per Giulia non lo era. Quella era Giulia che cercava il suo posto nel mondo a dispetto di quello che il suo DNA e il suo aspetto esteriore esternava.

«Sei Giulia. Sei sempre stata Giulia.» affermai con sicurezza, cercando di alzarle il mento per incontrare i suoi occhi. Aveva il viso minuto e bellissimo, con tratti somatici molto delicati e per niente maschili.

Sapevo, come lo sapeva lei, che doveva parlare con i suoi genitori. Non poteva rodersi e continuare ancora così. Doveva sentire dei medici, iniziare ad affrontare quel cambiamento che tanto desiderava anche per quello che riguardava il lato esteriore, quello che tutti vedevano, della sua femminilità. Non era abbastanza vestirsi da ragazza quando poteva. Non più. Non per lei. La faceva sentire ancora più inadeguata di quanto la facessero sentire i vestiti maschili che portava a casa e a scuola. Aveva bisogno di aiuto, un aiuto che io non ero più in grado di darle.

Lo sapevo io e lo sapeva lei, ma ora non mi sembrava il momento di insistere. O forse sì.

Il rombo di una moto in lontananza ancora una volta decise per me.

"Non di nuovo.", pensai, Giulia non sarebbe riuscita a sostenere altri momenti insieme a quel delinquente di Jacopo.

Scattai in piedi e la presi per mano.

«Andiamo.» le intimai, indecisa però se rivolgere i nostri passi verso uno dei nostri appartamenti o la scuola.

Tirai fuori lo smartphone dallo zaino, erano solo le nove meno un quarto. Se ci fossimo sbrigate, avremmo potuto entrare alla seconda ora.

«Dove?» mi chiese. Una lacrima le stava ancora scendendo lungo la guancia anche se aveva smesso di piangere. Tirò su con il naso e si asciugò quella perla solitaria con il dorso della mano.

Sorrisi quando notai il braccialetto con la mezza stella. Ne avevo uno uguale. Lo avevamo preso insieme alla fermata della metro, amiche per sempre avevamo detto.

«A scuola.» La presi sottobraccio e ci avviammo in quella direzione.

Don't kiss the VillainDove le storie prendono vita. Scoprilo ora