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Jackie

Domenica mattina mi sento ancora frastornata.

Non mi è piaciuto il modo in cui si è conclusa la serata tra me e Cristian, avrei voluto che le cose fossero andate diversamente e non che finissimo per litigare. Sbuffo, a alzandomi metà busto per poi guardarmi intorno per la camera da letto. Ho alcune faccende domestiche da sbrigare, anche il mio frigo inizia a urlare "riempimi" per quanto sia vuoto e infatti mi sa che dovrò andare a fare la spesa. Scuoto il capo, scostando le lenzuola per poi poggiare i piedi a terra. Marvin credo sia in soggiorno, sarà andato a mangiare i croccantini o a bere. Appena scorro le porte della mia camera, mi dirigo in cucina per bere un bicchiere d'acqua. Ho giusto il tempo di fare qualche passo che di colpo qualcuno bussa al portone di casa mia. Vado ad aprire senza guardare chi sia, perché tanto so chi può venire a rompermi le scatole a quest'ora. «Ancora in pigiama?» mi giudica Brett mentre io lo guardo di traverso. «Mi sono appena svegliata» sbuffo, mentre mi supera con un'occhiata di sufficienza. Si guarda intorno per il mio appartamento, gettando una breve occhiatina a Marvin: finora non ha fatto altro che guardarlo dall'alto al basso, non è stato molto socievole con il cucciolo.

«Cosa ci fai qui?» domando, avviandomi verso il frigo.

Come al solito mi ignora e si mette a guardare l'enorme vetrata. «Non capisco perché tu abbia scelto Washington, tra tutte le città proprio quella del presidente sei andata a pescare» fa una smorfia.

«Continui a non rispondermi» mi impunto.

Fa un'espressione saccente, arrivando di fronte alla penisola. «Mi hai posto una domanda ieri, mi hai chiesto cosa voglio davvero e ho trovato una risposta finalmente» chiarisce fiero di sé. «Voglio con tutto me stesso andarmene da questa città di merda» sputa fuori, duro.

Non era la risposta che mi aspettavo.

Alzo gli occhi al cielo, bevendo un sorso d'acqua.

«Ma, soprattutto, voglio capire per quale strano motivo non riesca a ucciderti. Insomma, è chiaro che il mio alter-ego sia pazzo di te, tuttavia voglio capire se i suoi sentimenti mi stiano influenzando» medita, quasi disgustato alla sola idea di provare qualcosa per me. Poggio una mano sui fianchi, restando a qualche passo di distanza per poi lanciargli un'occhiataccia. «Il disturbo dissociativo non funziona così» lo informo. Mi guarda come se si aspettasse un continuo, quindi mi schiarisco il tono. «Intendo dire che non sei riuscito a completare il tuo "operato" perché sei entrato in contrasto con il desiderio di Beltran» mi spiego meglio. Assottiglia gli occhi, realmente interessato questa volta. «Il tuo desiderio più grande è quello di porre fine alla mia esistenza, mentre quello di Beltran è condividere una vita insieme a me» arrossisco. Sento sempre una morsa al petto quando lo penso così intimamente. Si gratta il mento, pensieroso. «Mi stai dicendo che sono condannato?» schiocca le labbra urtato. Sembra irritato dalla mia constatazione; inspira, si aggrappa con le dita al marmo della penisola e chiude gli occhi per calmarsi.

«Cosa dovrei fare ora?» ammicca in mia direzione.

È la prima volta che chiede il mio aiuto.

Sbatto le palpebre, prendendomi qualche secondo di tempo prima di rispondergli. «Mi stai chiedendo di farti una seduta?» corrugo la fronte, mentre lui assottiglia gli occhi. «Vediamo quello che sai fare, dottoressa.»

Minuti dopo, ci troviamo entrambi nel soggiorno; io sono seduta sul pouf mentre lui sul divano, a gambe stravaccate. «Credo che tu debba darmi qualche spiegazione, per esempio potresti dirmi perché vuoi uccidermi» lo guardo di sottecchi, con astio.

«Lo rendi debole» dice senza esitare.

«Beltran non ha mai manifestato alcun disagio» nego.

Mi guarda con sufficienza. «Ne sei sicura?» domanda. Non capisco di cosa parla, oltre i nostri soliti litigi non mi ha mai detto chiaramente che io lo rendessi vulnerabile. «Tu lo distrai, lo rendi poco lucido ed è questo tuo atteggiamento poco affidabile a renderlo debole.»

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