Cap.46 Punizione divina

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JASON

Mi immetto nel traffico, diretto verso casa sua. Digito il suo numero sullo schermo dell'auto e nonostante io mi sforzi di rimanere tranquillo, sento che esploderò a breve. Perché diavolo non risponde? Perché diavolo non si è presentata in azienda? Grace e i suoi dannati pensieri intrusivi! Se pensa che mollerò così facilmente, si sbaglia. Non ho mai pensato a lei come una semplice scopata e mi urta il fatto che sia lei a pensarlo nonostante gli abbia dimostrato più volte che non è assolutamente così. Ed eccomi a giocare al gatto con il topo: lei che fugge, io che la inseguo. E questa cosa mi fa incazzare da matti, mi manda fuori di testa. Non riesco a controllarmi quando si tratta di lei, non riesco a controllare le mie emozioni e quelli che sono i miei sentimenti, quando si tratta di lei. È lei che mi fotte il cervello. E probabilmente, è stato così sin da subito. Possibile mai che lei, questo, non l'abbia capito? Non potrei mai farle del male, i buoni sentimenti che sta risvegliando pian piano in me, non me lo permetterebbero. E soprattutto, non voglio che ciò accada. Costi quel che costi, farò di tutto per preservarla, per amarla come merita.

Arrivo sotto casa sua, frustato e innervosito dall'eccessivo traffico, parcheggio all'angolo del marciapiede un po' a cazzo e mi fiondo in quello che è il suo palazzo. L'ascensore è più lento del solito così prendo le scale in fretta e furia. Le salgo a due a due, impaziente di bussare alla sua porta e di vederla nuovamente. Sembra che l'aria sia completamente evaporata dai miei polmoni, lasciandomi a secco, con il fiato corto. Giurerei di non essermi mai sentito così prima d'ora: in bilico sul filo di un rasoio pronto a farmi in piccoli pezzetti.

Mi do una sistemata veloce, non voglio che pensi che mi sono precipitato qui. Anche se, effettivamente, non ci sarebbe nulla di male. Sbottono leggermente la camicia e infilo una mano nella tasca del pantalone mentre con l'altra busso sulla porta. Il tonfo secco e morto che provoca il suono delle mie nocche su di essa, non mi piace proprio. Non sento nessun rumore provenire dall'interno e questo silenzio eccessivo non è da Grace. Continuo a bussare, questa volta con più foga e con più preoccupazione. E se le fosse successo qualcosa? No, impossibile. L'avrei saputo. Il cuore mi tamburella in petto in modo inspiegabile e incontrollabile; sembra quasi che abbia voglia di uscire fuori e urlare al posto mio.

Ad un tratto, sento la chiave girare nella toppa. Tiro un sospiro di sollievo, è in casa.

«Jason?», la sento mormorare da dietro.

Resto imbambolato a guardarla per qualche secondo. Ha l'aria stanca e provata, indossa una tuta larga color crema e i suoi occhioni sembrano spenti. Janette forse non ha mentito, non sta bene davvero. Mi sento uno stupido nell'aver dubitato di una mia dipendente prima, della donna che amo poi.

«Posso entrare?», dico, riprendendomi da quei pensieri un po' troppo intrusivi. Nonostante non stia al top, è sempre bellissima. E sono contento di essere venuto qui, non avrei resistito oltre.

Grace si scosta dalla porta, richiudendola subito dopo il mio passaggio.

«Scusa il disordine», mi si avvicina, «volevo finire di addobbare casa ma non mi sento molto in forma oggi», continua.

Nella sua voce noto un tono freddo che proprio non mi piace. Tuttavia, sono più preoccupato della sua salute ora.

«Come stai? Quando stamattina non ti ho visto in azienda, ho pensato che tu fossi scappata via da me. Invece, noto con molto piacere che per fortuna non sei arrivata ancora a tanto», dico, senza pensarci troppo.

Grace sorride appena. Poggia una mano sul mio avambraccio, accarezzandolo. Rabbrividisco al suo tocco gentile e delicato sulla stoffa della camicia. Riesce a penetrarmi l'anima soltanto sfiorandomi.

«Non ti libererai così facilmente di me, Jason White», bisbiglia quasi fanciullesca, «avevo una nausea tremenda stamattina e ho pensato di non venire in azienda. In più, credo proprio di avere un po' di febbre», conclude, dispiaciuta.

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