V • SCIAS ISTA NESCIAS

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Devono essere passati molti anni dal giorno in cui, per la prima volta, un collare si è stretto intorno alla gola di Settimo. Lo capisco dal modo in cui si massaggia il collo come se temesse che, ora che ne è privo, non sia più in grado di sorreggere il peso della testa.

Eppure non ha alcuna memoria del momento in cui gli è stato rimosso, per quanto l'abbia di sicuro sognato tanto a lungo. Nessuno di loro ce l'ha.

«Niente di niente?» sta domandano Marcus a Fumilla, per la cinquantesima volta.

«Se ti ha detto che non ricorda significa che non ricorda» intervengo. «Lasciala stare».

«È necessario uscire a controllare cosa sta accadendo» dice Nerva. «Fa' in modo che nessuno si muova da qui, Gallius» aggiunge poi, rivolgendosi alla sua Penula Blu e quello annuisce, sfodera il mitra e lo punta sulla folla impietrita.

La sua voce è così cambiata, rispetto a quando eravamo piccoli. Non somiglia più a quella acuta e cristallina di cui sento ancora il riverbero quando ripenso a quelle giornate serene della nostra infanzia. Quella con cui chiamava il mio nome durante una corsa sfrenata o con cui liberava tutti concludendo una partita a nascondino nel peristilio della domus imperiale.

Quella che gli si mozzava nella gola per l'entusiasmo quando riuscivamo a scappare fuori dalla cupola per intrufolarci tra le rovine congelate della Domus Augustea, quello che restava della residenza privata di un imperatore arcaico, a osservare il Vero Cielo.

«Sai che continuiamo a vedere la luce di stelle morte da secoli?» mi domandava.

E io lo osservavo ammirata e stupita da quanto lui fosse qualcosa di tanto simile a me eppure così spietatamente diverso.

Perché lui era stato educato da un Pensatore per diventare l'imperatore. Io ero stata educata da un Pensatore per diventare un altro Pensatore.

Lui era stato spronato a coltivare l'intelletto imbarcandosi in quel tipo di indagini che, seppur lontane dalla questione morale, fossero in grado di sollevare l'animo all'altezza degli argomenti trattati. Io a maturare quella violenta avversione contro ogni forma di erudizione che miri al superfluo e perda di vista il necessario che è alla base del conceptus.

E così, tutte le volte in cui Nerva alzava lo sguardo verso la volta celeste, Segesto lo incoraggiava a interrogarsi su cosa alimentasse i pianeti e sul se e sul come le vicende umane si muovessero in relazione a essi.

E a me, nel frattempo veniva insegnato che se gli astri fossero davvero la causa di ciò che accade, la conoscenza di un fatto tanto immutabile sarebbe in ogni caso superflua. Che importa prevedere ciò a cui non si può sfuggire? Sia che tu lo sappia, sia che tu non lo sappia, accadrà ugualmente.

«Vorresti accompagnarmi, Merula?» mi domanda.

«Io?» rispondo, sorpresa. «Ma sì, certo. Se ti fa piacere».

«Vengo anch'io» si intromette l'Àugure. Anche se non ti fa piacere, sembra sottintendere.

«Sì, va bene» annuisce, poi si rivolge a Settimo. «Vieni anche tu, Settimo, amico mio».

Settimo... amico mio?

«Certo» risponde lui, completamente atono.

Avrò modo di pensarci in seguito. Perché, adesso, un passo dopo l'altro finché non raggiungiamo l'uscita, questo strano sogno, questa astrazione sopra cui un vero Pensatore eviterebbe persino di far indugiare il giudizio, diventa sempre... sempre meno astratta.

La pavimentazione, qui fuori, è composta da grossi blocchi di pietra. Bianchi e lucenti quelli più prossimi al foro, sempre più logori, crepati, ingrigiti e ricoperti di muschio e sterpaglie man mano che ci si allontana dall'uscita. Sterpaglie che si trasformano ben presto in un verdeggiante manto erboso entro cui l'intreccio nodoso di radici secolari affonda le sue lunghe dita da vecchio Pensatore.

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