17. (𝕱𝖆𝖜𝖓)

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Fu la prima della camera ad alzarsi.

Non aveva dormito davvero, gli strascichi di una notte meditabonda le avevano lasciato addosso un senso di straniamento. Era su di giri, le membra secche come se tutta l'acqua del suo corpo si fosse prosciugata dentro all'ansia brulicante di quelle ore. Per l'intera durata dell'oscurità era stata attraversata da spasmi: ricordi e pensieri disarticolati l'avevano affollata.

Non aveva mai potuto vantare doti di riflessività e lo sapeva bene: era abituata a muoversi secondo istinto, in balia di scosse e deviazioni che nemmeno lei stessa capiva o presagiva. Quel temperamento non le dava né lustro né gioia: si limitava a seguirlo, certa che in ogni sua giornata qualche potente emozione sarebbe arrivata a smuoverla, presto o tardi.

Da tutta la vita si sentiva rimproverare di essere una ragazza esagerata, difficile, poco mansueta, e quanto quelle fossero caratteristiche nient'affatto desiderabili. Suo padre glielo aveva ripetuto spesso mentre l'aveva vista crescere: lui lo diceva con bonarietà e con l'aura di amore che le aveva sempre riservato, condito di modi bruschi ma affettuosi. Prima che quell'amore fosse indirizzato altrove, certo, quando ancora era stato a suo appannaggio soltanto.

Ma in fondo anche lui, come tutti, le aveva fornito solo la versione più gentile di una sentenza lapidaria. Lui e i suoi fratelli non si sarebbero mai immaginati di vederla vicino a qualcuno, men che meno una sposa. L'avevano sempre considerata uno spirito selvaggio, contenuto dentro a una modesta abitazione per anni, a protezione loro e di una piccola realtà, ma incapace di incontrare delle briglie.

Solo Dylam era riuscito a guardare oltre e a intravedere dietro il suo viso fiero un universo di calore. Non quello violento che tutti si aspettavano di scorgere, no, era un'altra cosa: lui aveva sentito la sua voglia di essere libera e di vivere senza freni e ne aveva fatto una meravigliosa corona di comprensione e tenerezza. Con essa le aveva promesso di affiancarsi a lei in quella corsa senza meta.

Sì, Dylam. Ma lui se n'è andato e tu devi ritrovare una direzione, o qui tutto andrà in malora.

Dal giorno dell'assalto al rifugio aveva vissuto tante emozioni. Per un tempo, il diniego totale era stato la replica prestabilita con cui rispondeva a tutti, ferma nel suo credere che le parole di quell'uomo malvagio fossero false e che lui fosse ancora vivo. Non lo avevano trovato ed era stato impossibile pensare di riacciuffare tutti i cadaveri: molti erano bruciati, alcuni a causa dell'incendio che lei stessa aveva appiccato senza volerlo. I papabili corpi rimasti senza un'identità, troppo rovinati dalla fine disastrosa concessa loro, non li aveva potuti esaminare: i pochi superstiti l'avevano spinta via e convinta che rimanere lì, in balia di ulteriori attacchi, sarebbe stata un'idea pessima. Erano scappati lasciandosi dietro la certezza che ogni uomo rimasto vivo, prima o poi, si sarebbe palesato.

Ci aveva sperato. Aveva atteso per settimane, se non mesi, convinta che se lui non riappariva, di certo, doveva avere un motivo valido. Pian piano, insieme alla rabbia e alla nausea, aveva preso piede il sospetto che quella sentenza di morte potesse essere vera. Aveva smesso di crederci.

Trascorse quattro intere stagioni senza che nessun fantasma fosse ricomparso alla porta, persino le sue speranze testarde erano diventate fuliggine nera. Non aveva mai più rivisto il suo volto. Neanche la più piccola parola, pronunciata dalla sua voce gioviale, le aveva più rischiarato la mente.

In quel frangente un'illusione minuscola e fragile l'aveva attraversata, al pensiero di essere sempre più vicina al villaggio di Kyma. L'ipotesi straziante di vederlo sorridere ancora si era instillata nel suo cranio, lucida e crudele. Lo sapeva benissimo: si sarebbe rivelato solo un ulteriore e lancinante dolore una volta scoperchiata la verità. Tuttavia non era riuscita ad alienarsi del tutto da tale pensiero, dall'idea che lui fosse ancora in quella terra, nascosto dalla propria famiglia senza più farsi vedere da lei.

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