28. (𝕴𝖉𝖆𝖑𝖎𝖆)

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«Vostra Altezza, siete certa di non volere aiuto?»

«Ho detto di no, Orly. Questo è un lavoro che preferisco fare da sola».

Un lavoro inesistente e incompiuto, in realtà: scrivere un ipotetico messaggio da consegnare a sua madre. Nulla garantiva che la regina sarebbe stata in grado di prestarle attenzione al momento della visita, l'idea era di lasciarle l'ennesima lettera che avrebbe potuto leggere in un istante più lucido. Aveva chiesto di essere scortata nella sua residenza, per quella sera, sfruttando la scusa dell'imminente annuncio di nozze.

«Voglio passare la cena e la notte con lei, come ogni stupidissima sposa che debba confidarsi in vista di un evento del genere».

Suo padre non era riuscito a negarglielo, e lei aveva cercato di dimostrarsi il più convincente possibile. La verità era che non c'era nessuna lettera, nessun proposito di arrivare davvero agli alloggi separati di sua madre... e che quello era il piano migliore che era riuscita a partorire, lacunoso e pieno di falle.

Non poteva sbagliare, però.

E la sua dama di compagnia avrebbe dovuto allontanarsi, per garantirle una maggior riuscita: «Aspettami giù nell'atrio, la carrozza è sicuramente pronta. Arrivo tra poco».

Un'incertezza e del silenzio. Forza, vai.

«Va bene, Vostra Altezza. Scendo, vi attendiamo. È quasi buio, non attardatevi troppo».

Si avvicinò alla porta di legno massiccio e vi poggiò sopra l'orecchio, i sensi all'erta per captare se la donna se ne stesse davvero andando. Il fruscio di una probabile veste e il suono dei passi che scemavano le diedero la risposta che cercava.

C'era solo una guardia, fuori dalla stanza. La stessa, irreprensibile e fissa guardia che non lasciava la soglia della sua camera dai tempi della prima fuga. A quel punto doveva solo riuscire a metterla fuori gioco, far sì che si allontanasse anche lei e poi agire con velocità.

Tutto il percorso da compiere una volta superata quell'unica barriera umana era lo stesso della volta precedente, non aveva avuto né tempo né pazienza per ipotizzare nulla di meglio. Correre fino alla cappella privata sul lato più esterno dell'ala est, assicurarsi che non ci fosse nessuno e infilarsi nel passaggio che conduceva alla torre nord-est, percorrerla fino al secondo livello. Sperare, una volta lì, che nessuno si fosse ancora accorto del danno alla finestra e del fatto che la grata mancante, insieme a quella divelta, concedessero lo spazio per arrampicarsi e sgusciare fuori a qualsiasi ragazza di esile corporatura.

Avrebbe dovuto calarsi giù, fare affidamento sul proprio potere per guardarsi i piedi e rallentare il più possibile la caduta, ignorare il tuffo gelido e immergersi nel bacino d'acqua che attorniava l'intero castello di suo padre. Il fagotto contenente degli abiti asciutti era già pronto, doveva riuscire a nuotare senza farsi vedere da nessuno e mantenerlo in volo sopra il pelo dell'acqua, fino a riva. Da lì in poi, solo boschi e una corsa a perdifiato.

Il buio della sera che si apprestava a calare e il fatto che la maggior parte delle guardie erano a sud, ad attenderla per scortarla sul ponte e verso la dimora della regina, a venti miglia da lì, erano gli elementi che mantenevano viva una flebile speranza di poter riuscire nell'impresa.

Troppo poco per avere una qualche certezza di non finire davvero rinchiusa e segregata a vita.

Ma non ho altra scelta, inutile rimuginarci ancora.

Tirò fuori dal corpetto, con mani tremanti, l'oggetto peloso e morbido che aveva rubato dalle stalle dopo essere tornata dalla cavalcata mattutina: un topino fatto di tessuto, usato per tenere in allenamento i gatti che popolavano il fienile e le cucine. Abbastanza realistico da poter funzionare: l'aspetto che assumeva, una volta posato a terra, le dava persino ribrezzo.

𝕸𝖞𝖘𝖙𝖎𝖗𝖎𝖆Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora