chapter 18• spine di rimpianti

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Elisabeth

Quella sera indossai una semplice t-shirt rosa e un jeans nero.
Arrivai davanti a casa di Denver con le unghie affondate nel jeans e la musica che da fuori faceva vibrare l'abitacolo della macchina; mi ritrovai a fissare la gente che affollava il giardino senza riuscire a muovermi.

"Non è l'indirizzo giusto?"mi chiese Mathia, l autista della gallina.
"Si... Si, è questo."
Mi sentivo inchiodata a quel sedile, come se il mio cuore avesse messo le radici. Tuttavia lo sguardo in attesa di Mathia mi fece provare la giusta dose di imbarazzo per spingermi ad aprire la porta.

Scesi nel buio della strada, rischiarato dai lampioni.
Gente affollava il marciapiede e la musica era talmente alta che sentivo a malapena i miei pensieri; in quella ressa di ragazzi a petto nudo, casse di birra e urla, io mi sentii inadeguata nel mio outfit confezionato con cura. Rimasi immobile come una statua di sale, e più restavo li, più qualcosa, dentro di me, faceva marcia indietro.
Che stavo facendo? Ero appena arrivata e già volevo andarmene. Avrei dovuto farmi largo tra le persone e cercare Denver, ma la sensazione di essere nel posto sbagliato si fece lentamente strada in me.

D'improvviso, divenni consapevole di ciò che sentivo.

Non era giusto.
Qualcosa era dolorosamente fuori posto.
Qualcosa non sapeva adeguarsi. Incastrarsi.
Ero io.
Era tutto di me, anima e ossa.
Osservai il mio riflesso sul finestrino di una macchina, quella acconciatura che mi faceva somigliare a una bambola.
Ma dentro ero cenere e carta.
Dentro avevo stelle e occhi da lupo.
Avevo l'anima spaccata in due, ma senza l'altra parte nemmeno respirare aveva un senso, ma mi ero illusa.
Non si inganna il proprio cuore, gridarono gli universi che avevo messo in catene. E nei miei occhi tristi vidi tutto il bisogno estremo di Jack Hell.

Jack che aveva messo radici dentro di me. Jack che si era ancorato alle mie ossa in quella maniera delicata e distruttiva che hanno i fiori prima di morire.
Jack che era la mia costellazione di brividi.
E nell'istante in cui lo ammisi a me stessa, non riuscii più a comprendere cosa stessi facendo.
lo non c'entravo nulla a quella festa.
Quello non era il mio posto.

Non mi avrebbe fatto dimenticare i sentimenti che mi portavo dentro. Li avrebbe solo riempiti di spine.
Decisi di andarmene. Avrei trovato un altro momento per parlare con Denver, ora volevo soltanto tornare a casa.
Prima che potessi allontanarmi, però, un paio di braccia mi strapparono al suolo.

Trattenni un urlo. Venni sollevata da terra, rivoltata e presa e in braccio come un sacco di patate; la borsetta mi si impigliò ovunque.
Halloween. Stessa sensazione.

"Ehi, ne ho presa una anche io!" enunciò lo sconosciuto che mi teneva, e con raccapriccio vidi un suo amico fare lo stesso con una ragazza ridacchiante. "E ora?" chiese uno dei due, eccitato.

"Buttiamole in piscina!"
Mandarono un ululato potente e puntarono come forsennati verso la casa. Mi dimenai in ogni modo, pregandolo di lasciarmi andare, ma fu inutile.

Aveva mani talmente appiccicose che ero certa mi avrebbe lasciato le impronte sulle gambe.
Solo una volta dentro casa, però, entrambi arrestarono la loro follia e si guardarono intorno confusi. "Ehi, ma qui non c'è mica la piscina..." borbottò uno dei due. Approfittai di quel momento per rotolare giù dalle sue braccia e fuggire via prima che potesse riagguantarmi.

Dentro era un inferno. Gente gridava, ballava, si baciava. Un ragazzo stava dando fondo a un barilotto di birra da un tubo, incitato da una piccola folla. Un altro stava agitando il berretto muovendosi a scatti come se stesse cavalcando un toro da rodeo: quando riuscii a vedere meglio capii che si trattava del tagliaerba rosso di Denver. Cercai la porta con sguardo smarrito, troppo piccola per vedere. oltre tutte quelle teste.

Call Me JackDove le storie prendono vita. Scoprilo ora