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Il Cottage Sperduto Nel Nulla

                                                  sesta settimana


Stavo dormendo, rannicchiato come potevo, quando il mio rapitore decise di svegliarmi: mi accarezzò lentamente il viso, quasi con dolcezza. Strizzai gli occhi per metterlo a fuoco e lui mi regalò un timido sorriso, puntando col dito fuori dalla finestra.

Nevicava.

Candidi fiocchi bianchi scivolavano delicatamente dal cielo fino al davanzale, uno dopo l'altro, accumulandosi in soffici cunette di brillanti.

L'uomo mi fissò i polsi dietro la schiena e mi slegò le caviglie. Poi mi aiutò ad alzarmi e mi avvicinai subito ai vetri: un sottile velo bianco aveva coperto le erbacce e il fango e si insinuava tra gli alberi come pallide dita di ghiaccio.

Il mio rapitore venne dietro di me e appoggiò le mani alla finestra, aderendo con il suo corpo al mio. Sentivo il suo respiro, profondo e regolare. «È bellissimo, vero?» mi sussurrò all'orecchio.

Per un attimo ebbi un fremito e dovetti chiudere gli occhi. Quel improvviso e inappropriato brivido di lussuria venne sostituito da un'opprimente nostalgia. «Sarebbe più bello se fossi affacciato alla finestra di camera mia».

Non si scompose più di tanto. Mi cinse i fianchi e mi accompagnò nel salotto dove attendeva la colazione.

Eppure, nel suo sguardo credetti di scorgere una nota di rammarico smarrita nel mare delle sue emozioni confuse.

Per qualche ragione a me ignota, sembrava aver perso l'interesse per il mio corpo. Da ormai una decina di giorni. E questo era molto positivo; per me. Quel costante bisogno di rifugiarsi dentro di me si era affievolito fino ad estinguersi, lasciando emergere particolari più interessanti del suo carattere, assolutamente inappropriati per la situazione. Era diventato più dolce e premuroso, e riusciva a suscitare in me emozioni che non volevo riconoscere. In un certo senso, mi sentivo più a disagio di prima.

Colazione abbondante. Io da un lato del tavolo, e lui dall'altro con la pistola di dardi soporiferi pronti all'uso.

Perché per mangiare mi doveva slegare le mani. Fu in quel momento, tra un boccone e l'altro, che riuscii ad equipaggiarmi di un'insolita astrazione che mi permise di analizzare i fatti con estrema obiettività: avevo avuto diverse occasioni per scappare e non le avevo colte. Perché?

Decisi di non riflettere sul quesito in questione. Non avrei ripetuto lo stesso sbaglio.

Mi impegnai duramente per mantenere un'aria naturale, escogitando un piano di fuga. Una soluzione semplice; ma prima volevo finire di mangiare. Quando anche l'ultimo boccone iniziò a dirigersi verso il mio intestino venne il momento di passare ai fatti.

Allungai le gambe per intrecciarle ad un piede del tavolo e con le mani strinsi i bordi del piano di legno. Ed ecco che in una frazione di secondo il tavolo era ribaltato, con tutte le stoviglie che si fracassavano a terra, proteggendomi dal mio insolito ospite. Con un calcio spinsi il tavolo contro di lui, che venne trascinato rovinosamente a terra dal peso del legno. Non fece in tempo a riprendere lucidità e alzarsi che un bel aghetto di plastica gli spuntava da una chiappa, vuotato della droga narcotizzante. Prima di accasciarsi a terra riuscì a guardarmi un'istante, e mi sopresi nel vedere un'aria addolorata e dispiaciuta sul suo viso.

Passai alcuni dei minuti seguenti a reprimere rimorso e sensi di colpa; perché in fondo lui mi ha rapito e violentato -continuavo a ripetermi. Avevo fatto la cosa giusta.

Trovai il portafogli nella tasca dei suoi pantaloni. Maximilian Mason. La foto della patente non gli rendeva giustizia; vederlo disteso a terra, con tutto il cibo spiaccicato sui vestiti, mi suscitò una sensazione di... spreco.

E non pensavo al cibo.

In fondo, sono stato fortunato -pensai accarezzandogli il viso; i peletti neri intorno alle labbra mi punzecchiarono le dita.

Sfilai senza troppi ripensamenti i 350 euro dal suo portafogli e strappai tutto il resto, patente, tessera sanitaria, bigliettini, tutto quanto. Lo considerai una sorta di risarcimento. Allora non feci caso al marchio delle forze dell'ordine stampato sul cuoio e sui documenti.

Gli rubai anche dei vestiti, i più belli che trovai: jeans di Armani, camicia di Gucci, cappotto Burberry.

Quando uscii dal cottage non trovai l'auto.

La neve non aveva ancora attecchito, creando solo un rivestimento superficiale sul verde manto erboso che rimase nascosto sotto i cristalli bianchi.

Feci un giro della costruzione e ta-dam! Non sapevo ci fosse un garage sul retro!

Parcheggiato accanto alla berlina coi vetri oscurati c'era un fantastico Vitara bianco del '94, un piccolo fuori strada a quattro posti con gomme tacchettate e sospensioni idrauliche. Era perfetto. Le chiavi erano inserite nel quadro; bizzarro per un europeo.

Accesi l'auto. Emozione ed entusiasmo avevano spazzato via quei sensi di colpa e dispiacere che di tanto in tanto facevano capolino. Era il momento di tornare a casa.

Innamorato di te che mi hai rapitoWhere stories live. Discover now