La mappa di Amor

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Non appena la sagoma slanciata di Cesare Pallante scomparve oltre la porta, Fabrizio raggiunse di gran carriera la sorella, che ancora guardava il rettangolo luminoso dell'uscita:

"E adesso? Come facciamo a portare una statua di queste dimensioni fino al Palazzo dei Pallante, proprio oggi?" Lavinia si passò la lingua sui denti, puntando a terra gli occhi.

"Chiama Antonino. Dobbiamo sbrigarci."

Pochi minuti dopo i tre fratelli erano intorno alla lastra di marmo crepata, che Lavinia aveva sgomberato per fare spazio alla pergamena che recava la mappa della città: in più punti era sbiadita, macchiata, addirittura qui e lì si era deteriorata e così ad esempio la via che portava dalla Porta del Falco alla fontana dei Da Sara sembrava piombare nel nulla all'altezza del campo dei Margheri. Oltre le linee e le indicazioni vergate col rosso carminio, la mappa era fittamente appuntata con simboli e segni, annotazioni e nominativi che nel tempo i tre fratelli avevano aggiunto, con il nerofumo o l'ocra a seconda di cosa avevano per le mani al momento. Il magazzino era nel quartiere degli artigiani, non lontano dal Salto, la larga strada in salita che conduceva alla sommità del colle, da cui sarebbe partita la corsa del palio.

"Di qui è da escludersi" disse Antonino, e tutti furono d'accordo.

"Dovremmo trovare la strada che porti dai Pallante evitando troppe salite. Se dovesse scivolare e cadere a valle..." Lavinia rabbrividì al solo pensiero.

"Ci si può provare, ma non so proprio se ci sarà abbastanza spazio per far girare il carro. I vicoli qui sono troppo stretti" replicò Fabrizio, e in effetti la selva di stradine abitate principalmente dal popolino di Amor non era l'ideale per la sfida che aveva lanciato loro Cesare Pallante.

Per un lungo momento tutti e tre tacquero, osservarono la mappa della città quasi trattenendo il respiro, come in attesa che il miglior percorso cominciasse a lampeggiare sotto i loro occhi. Lavinia iniziò a giocherellare nervosamente con il cravattino azzurro, sconfortata.

"E il conto da pagare sarà bello salato. Maledetto vigliacco, e ancora non abbiamo saldato il debito per il trasporto da Porta del Falco! Avremmo fatto molto meglio a commerciare con i Poccolani" borbottò, picchiettando qua e là sulla pergamena, come a cercare un indizio. Antonino, sconsolato, appoggiò il polpastrello dell'indice sul simbolo ad arco dell'antica Porta del Falco, e disegnò il percorso fino al magazzino, lungo la campagna e la periferia diroccata, per la via degli Orefici in cui probabilmente da secoli non si vedeva più alcun orefice, e poi per Viacquedotto che arrivava dalla Porta dell'Acqua, pochi passi dietro il magazzino dove si trovavano. Lavinia contemplò il dito lungo di suo fratello, l'unghia perfettamente curata, la pelle appena brunita, il profilo nodoso delle giunture fra le falangi: Antonino assomigliava sempre di più a suo padre. Tornò a osservare la pergamena, per rifuggire il doloroso ricordo del padre che avevano perduto. L'unghia rosata di Antonino puntava come una freccia, portando al magazzino. Ma la mappa era talmente minuta che, una volta coperto il cerchio con cui era evidenziato il loro deposito, l'arco candido dell'unghia indicava quasi la Porta dell'Acqua. Lavinia sussultò.

"Che c'è?" domandò Fabrizio, grattandosi la testa.

"Leva il dito" disse allora Lavinia, scostando la mano del fratello minore per rovesciare la carta, in modo da avere a portata di mano il settore della città che aveva puntato.. Prese lo stilo e lo tenne con la punta all'insù, per poter indicare la strada senza rischiare di macchiare o sbiadire le scritte.

"Usciamo da Porta dell'Acqua" dichiarò in prima battuta, picchiettando sul simbolino.

"Cosa?" esclamarono in coro i due fratelli.

"Ma perché? Dobbiamo arrivare nel centro della città" protestò Fabrizio, indicando la meta del palio, proprio di fronte al palazzo dei Pallante.

"E ci arriveremo" li rassicurò Lavinia, tratteggiando un nuovo percorso, al di fuori delle mura: "Seguiremo il vecchio tratto di mura, finché non arriveremo a Porta Gemini. Da lì è in salita, lo so, ma non sarà mai ripida quanto passare dal Salto. E poi più avanti c'è il ponte: da lì seguiamo lo stesso percorso del palio e arriviamo dritti in bocca al Palazzo dei Pallante. Beccati questa, Cesare" concluse trionfante.

"Vado a chiamare Oreste!" disse subito Antonino, incamminandosi verso l'uscita. Ma tornò indietro subito, per scoccare un sonoro bacio sulla tempia di Lavinia.

"Sei un genio!" le disse mentre correva via. Fabrizio e Lavinia risero insieme, sollevati.

"Resterà a bocca aperta, come al solito" le promise lui, sornione.

"Chissà perché gli piace tanto sfidarmi. Avrebbe dovuto imparare che non gli conviene già da un po'..." concordò Lavinia, riarrotolando la pergamena.

"Andrai anche quest'anno sul loro terrazzo?" domandò Fabrizio a bruciapelo, e il sorriso le si pietrificò sulle labbra. Restò in silenzio, camminando a passi lenti e misurati verso il piccolo mobile di legno dalle ante oblique a formare un reticolo, e con un unico, misurato gesto inserì in uno dei rombi il rotolo.

"Non avrei voluto" ammise, mentre tornava verso la scrivania "ma devo ammettere che dopo essere arrivata al loro palazzo in trionfo, sul carro che porta il più alto imperatore dell'antica Amor, l'unica cosa che mi meriterebbe è proprio godermi un po' di celebrità."

"Forse fra le cose che ha lasciato Bianca c'è un farsetto azzurro" disse allora Fabrizio, mentre si preparava ad avvolgere il prezioso carico in un'enorme tela, che un tempo era stata la vela di una qualche nave.

"L'ho usato l'anno scorso" gli rispose Lavinia con dolcezza mentre raccoglieva le corde con cui avrebbero assicurato il colosso nella sua temporanea coperta "per questa volta, penso che dovranno accontentarsi del cravattino"

"Ah, non ricordavo. Beh, torna a casa adesso, Lavinia. La figlia di Lanzer potrebbe aiutarti a raccogliere i capelli. Magari ti presterà qualche perla."

"Non ho voglia di perle altrui, fratello" sospirò Lavinia, e sapeva che entrambi ora stavano pensando alle candide perle che erano appartenute alla loro famiglia e che il padre era stato costretto a regalare per saldare i suoi debiti. Lavinia ricordava ancora l'ultima volta che le aveva viste al collo di sua madre: era il compleanno di Antonino e i creditori erano venuti a rovinare la festa, come facevano sempre. Prima ancora che potessero parlare, donna Marzia era andata loro incontro, e senza battere ciglio si era spogliata delle sue perle, invitando i creditori a prenderle e ad andare. Pochi mesi dopo era venuta a mancare, dopo aver visto tutta la sua casa e i suoi averi, la sua dote e quella di Lavinia sperperati. Nessuno dei tre fratelli citava mai direttamente donna Marzia, la madre che avevano perduto così presto, ma era come se percorresse sotterraneamente le vie del loro sangue, pronta a riaffiorare nel ricordo come un esempio di tutta la sofferenza a cui desideravano sfuggire.

"L'anno prossimo avrai le tue perle" le promise Fabrizio, raccogliendo dall'alto della scala il capo di corda che lei gli porgeva.

"Sarebbe bello" replicò Lavinia con un sorriso "ma mi accontenterei di un abito nuovo, al posto degli scarti delle vostre sciagurate mogli..."

In quel momento entrarono nel magazzino una mezza dozzina di uomini, che Antonino aveva evidentemente mandato ad aiutare.

"Va' pu-e, SHO-ellina, il tuo coloSSHOo è in Vuone mani!" insistette Fabrizio, con un capo della corda fra i denti. Lavinia salutò gli uomini e, dopo essersi raccomandata in mille maniere, finalmente si incamminò verso casa.


Amor oblita - Di congiure e catacombeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora