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Gioia






Mi siedo sul bordo del letto di casa mia. Poggio le mani sulle lenzuola fresche. Schiena dritta e gambe chiuse. Le ginocchia strette l'una all'altra. Piedi scalzi, accanto le scarpe con tacco alto per rendere l'outfit della serata quanto più elegante possibile. 

Di fronte lo specchio acquistato non molto tempo, dopo essermi stabilita nel monolocale. Nuovamente. Qualcuno si è posto una domanda, legittima: come si fa a vivere nelle quattro mura dove, un anno prima, è capitato l'inimmaginabile? 

Potrei rispondere che le finanze scarseggiano, che questo è ciò che posso permettermi. Che sono così avanti da superare determinati eventi. La verità è che non ci ho riflettuto minimamente su, che non mi sono chiesta per un nano secondo il perché di questa casa. Ed anche il perché di ciò è svelabile. Probabilmente non l'ho rivelato a me stessa, non apertamente, né tantomeno a chi mi sta accanto, ma la ragion per cui ho accettato di affittare questo monolocale è semplice, semplicissima. Ritornare qui mi ha fornito l'illusione di non esser mai fuggita via, di non aver abbandonato cose e persone un anno fa. Rimettere piede in questa cosa ha voluto significare per me il riprendere il filo del discorso da dove l'avevo lasciato. Credevo di essere migliorata, di esser maturata a Milano. Mi sbagliavo e me ne rendo ancor più conto non appena scorgo la mia persona riflessa nello specchio. L'avevo comprato per giudicare la mia bellezza, la possibilità di sembrare presentabile con uno o un altro capo d'abbigliamento. In questo preciso istante, questo stesso specchio mi sbatte in faccia la realtà dei fatti e la mia presunzione. La pretesa di pensare che nulla fosse mutato a suon di secondi. La pretesa che avrei trovato a Minori tutti ibernati, in attesa del mio ritorno trionfale. Sono una presuntuosa, una ragazza immatura, una stupida. Una che non impara dai propri errori, una che non riuscirà mai ad analizzare chi si imbatte sul proprio cammino. Una che deve fare sempre i conti quando i conti sono già belli che fatti.

Erano vicino casa sua, in strada. Tenendo conto che il sole tramonta tardi, poco serviva la luce del lampione. La posizione era la medesima. Lei accanto al muro, come in attesa. Lui camminava, dandomi le spalle. Non si è accorto di me ed io ho fatto in modo che non si voltasse, silenziandomi sia con la voce che con il corpo. Lei si, si che mi ha vista. Nel suo sguardo ho letto tutto il terrore di chi teme di essersi giocata la possibilità creatasi. La conosco bene quella sensazione, ho vissuto di frazioni di secondo. Ho maledetto il mondo quando mi sono stati strappati.

Avevo appena chiuso la libreria, dopo il pranzo in un ristorante vicino. Abbiamo mangiato paccheri con frutti di mare accompagnati da un bicchiere di vino bianco. Avevo ancora in bocca il profumo del mare, la mano ancora piena delle sue carezze. Un paio di ore idilliache, spensierate, tranquille, in quel ristorante che ci è sempre piaciuto da piccoli, poiché ritrovo delle coppie innamorate. Prima che ci lasciassimo per decisione dei miei genitori, mi aveva promesso che mi ci avrebbe portata e che ci saremo mostrati come una normale coppia di fidanzati, mandando a quel paese le malelingue. L'abbiamo fatto oggi, ci siamo seduti e abbiamo pranzato assieme. Mancava la candela accesa a tavola, ma questo è un dettaglio di scarsa importanza.

Il dovere ha richiamato la nostra attenzione, io in libreria e lui al ristorante. Ho lavorato, spolverato i libri, sistemato, posizionato accanto alla macchina del caffè, in sala lettura, le cialde e i bicchieri di plastica. Lo zucchero raffinato e di canna. Dunque le otto e mezza di sera e la saracinesca abbassata. 

Un passo dopo un altro, inviando messaggi ad Athina. Le parole sussurrate all'orecchio e un quesito non risolto: cosa mai vorrà dirmi? Ma si sa, quando si ha un figlio, ogni piano va a farsi benedire. Abbiamo rimandato il nostro appuntamento. Mi sono diretta verso il mio appartamento per recuperare un po' di effetti personali. Nonostante le ultime notti le abbia spese da Michele, è nel mio monolocale che ho quanto mi occorre.

Trovandomi proprio accanto casa sua, mi son detta: quasi quasi gli dico che sbrigo delle faccende e dormo da lui. Mi era sembrata una buona idea. Era seriamente una buona idea, ma non gliel'ho confessata. Non ne ho avuto modo perché la possibilità che ho concesso a quella ragazza, Lucia, ha demolito la mia. 

Una brava pittrice memorizza a volo le immagini in modo da poterle ricreare su tela. Lo scherzo di cattivo gusto, fattomi settimane fa, mi è tornato utile in questo senso. Ho il viso, le labbra, gli occhi di questa ragazza scolpiti nella memoria e ora che ci rimurgino, sono esattamente i tratti della persona scorta nella penombra ad inizio mese. 

Chissà quante volte se ne è stata li, in religioso silenzio, ad attenderlo. Chissà quante volte si sono incontrati, malgrado sapessi il contrario. E chissà quante volte lei ha desiderato afferrargli la mano, agguantarlo a se e baciarlo, come ha fatto in mia presenza. Magari giungerete al punto di definire questo bacio come uno smacco nei miei confronti. In fondo Lucia ha colto due piccioni con una fava. Eppure non credo siano andate esattamente così le cose, non credo che l'abbia baciato per ripicca. Ripicca di cosa, poi. Mi sembra tutto così chiaro e limpido. È lei che vuole, no me.

Lui è rimasto fermo ai suoi venticinque anni. All'estate con l'idea del padre morto da accettare e l'amore represso per me. All'estate in cui, mentre litigavamo per una sciocchezza, scoppiò in lacrime, poiché non riusciva a superare la perdita di zio Fabrizio e il sentimento verso sua cugina. Mi confessò di essersi innamorato di me, non volendo. Non l'aveva deciso, era accaduto e basta. Gli saltai addosso, mi sentii meno stupida nel provare quello che definivo un errore.

Questa è la differenza tra me e Michele. Me, Michele e Lucia. Io, in un modo o nell'altro, sono andata avanti per la mia strada. Lucia è in piena adolescenza e osserva la vita in modo disincantato. Michele necessita di questo, di qualcuno che lo riporti ai suoi venticinque anni, che gli cancelli il peso degli sbagli dalle spalle. Ha bisogno di Gioia, quella Gioia di quasi dieci anni fa che non esiste più.

Mi guardo allo specchio, le lacrime rigano le mie guance. Ci ho provato, ci ho provato con tutta me stessa, ma non posso, non voglio, spendere gli anni della mia vita in preda al passato. 

Li ho osservati staccarsi l'un dall'altro. Lui le ha accarezzato il viso ed è andato via. Io mi sono ritratta per non farmi scoprire. Sono scappata, non senza cogliere la scena di Lucia affranta. 

Lo capisco lui, paradossalmente. Lo capisco il suo cedimento, il suo tentennamento, se tengo conto del suo obiettivo, rivivere una precisa epoca. Da una parte ha la donna che ha sempre amato e dall'altra una ragazza, che le fornisce l'immagine di quella stessa donna nello scorcio migliore del loro vissuto insieme. Una follia. È una follia poter solo pensare di ricostruire un passato sfumato. Una follia che non riesco pienamente a decifrare. Perché si ostina? Che cosa lo tormenta al punto tale da desiderare di rivivere il passato, rifiutando il presente?

Non mi sono azzardata a recarmi a casa sua. Mi è tornata utile la scusa della stanchezza serale. Metteteci gli impegni di lui l'indomani e la distanza è creata. 

Sistemo i capelli. Prenderò parte all'inaugurazione in disparte, taciturna.

Mi sovviene la frase scritta su quel biglietto. E tu dove sei? Io sono qui, ma tu Michele? Tu dove sei?


















Fine terza parte

Se non fosse per te- RivelazioniWhere stories live. Discover now