EREMOFOBIA

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                                                                       PAURA DELLA SOLITUDINE


Non so cosa abbiano gli altri che io non ho. Non so come facciano i poeti, gli scrittori e i cantanti a mettere insieme le parole e a trascriverle sulla carta così bene. Sembra sempre che sappiano cosa dire al momento giusto. Io non so come facciano. 

Loro riescono a salvarti appena prima che tu tocchi terra, ti riportano non alla cima, ma ad un livello accettabile e ti aiutano ad andare avanti. Oppure ci sono quelli che ti fanno piangere fino a che non ti mancano le lacrime e il respiro, che ti fanno sfogare. O ancora quelli che ti fanno sognare e ti portano in un'altra galassia, e per un attimo tutto ti sembra perfetto, come in una dolce fantasia. Per qualche momento il mondo sembra girare nel verso giusto, e tu sei a posto con te stesso, sei abbastanza, ti basti e basti agli altri. 

Ma appena finisce la traccia precipiti di nuovo nell'abisso. 

Tutte le mattine alle cinque in punto la mia sveglia suona. Devo portare fuori il cane, perchè i miei hanno detto che, dal momento che l'ho desiderato tanto, devo essere solo ed escluvisamente io ad occuparmi di lui. Lui è mio e io sono suo. Giriamo l'isolato un paio di volte prima che lui riesca a trovare il cespuglio giusto, prima che lui possa annusare tutto quello che c'è in terra e in aria. Guardo l'oroglogio. Sono arrivate le sei.

Devo tornare a casa perchè tra un po' mio padre e mia madre si svegliano e vogliono la colazione pronta. Devo andare subito, anche se il cane continua a tirare il guinzaglio dalla parte opposto. Nemmeno lui ci tiene a tornare in quel posto. Come lo capisco.

Quando ho finito di preparare la colazione sono le sei e mezza e i miei genitori scendono per mangiare. Io vado a farmi una doccia e a prepararmi per la scuola, perchè alle sette passa l'autobus. Non vedo l'ora di avere una macchina tutta mia, così potrò svegliarmi alle sei. L'autobus ci mette quasi un'ora per arrivare a scuola e, sebbene la mia fermata sia tra le prime, è già strapieno. 

Quando ho finito di prepararmi sono quasi le sette e i miei di sotto già litigano. Esco dal retro, perchè se gli passo davanti sono sicuro che vedrò mia madre con le lacrime agli occhi e mio padre con la cinghi in mano, pronto per darmi "una lezione di vita", come le chiama lui. Non capisco perchè mamma lo abbia sposato. O forse lo so ma non riesco ad accettarlo. 

Lei non riesce a vivere con se stesse e quindi ha bisogno di qualcuno che ci riesca. Peccato che, dopo il quarto matrimonio di fila, non sia ancora riuscita a trovare la persona giusta. Io spero che la trovi, perchè in ogni relazione andata male chi ne paga le conseguenze sono sempre e solo io.

Quando esco di casa mi ritrovo nel giardino con l'erba secca coperta di neve. Il paesaggio rappresenta esattamente quello che sento: desolazione e decadenza. 

Vado alla fermata e durante il tragitto calcio qualche lattina in qua e in là. Esattamente cinque case prima della mia fermata ce n'è una troppo bella per essere stata costruita nel mio quartiere. In quella casa ci abita una famiglia senza problemi economici, senza problemi famigliari, senza debiti e senza litigi. Hanno anche un gatto, e non ha l'espressione triste come tutti gli altri, animali o uomini che siano. 

C'è una ragazza che ogni volta che passo di lì al mattino, si sta preparando la colazione. Siede di fronte alla finestra e alza gli occhi quando passo. Mi saluta, poi torna a mangiare. Il mio stomaco brontola, ho sempre la tentazione di fermarmi, di aprire il cancello ed entrare per asaporare la felicità di quella ragazza, per dirle che anche se non abbiamo mai parlato io mi sono innamorato di lei. Ogni tanto mi fermo, ma poi ci penso e vado avanti. Lei ha qualcosa per cui vivere, io no. Lei è pura, semplice e bellissima. Io sono un disastro, un errore, una cancellatura che stona in un tema perfetto. Non viene nella mia scuola. Si vede che i suoi hanno scelto di regalarle un futuro e l'hanno madata in una delle due scuole private della città. Fortunata lei. 

Quando salgo sull'autobus mi dirigo verso i posti in fondo, con la musica sparata nelle orecchie, cercando di isolarmi dal mondo. Mi sento sbagliato, sporco. I miei vestiti di seconda mano, di due tagli più grandi e pieni di toppe mi cadono di dosso, e non scivolano sul pavimento per puro capriccio.

Intorno a me la gente parla e io, a volte, l'ascolto. Le prime volte, quando avevo voglia di fare amicizia, mi inserivo a caso nelle conversazioni e dicevo la mia. Ma poi mi sono accorto che a nessuno importava, come a casa, e quindi ho imparato a tenere per me quello che penso. 

Ho paura del giudizio degli altri, di quello che gli altri pensano di me. Per questo non ho amici. Chi vorrebbe mai uno come me? 

Quando arrivo a scuola, tra i banchi, la situazione non cambia. I professori non sono indulgenti e gentili come vogliono farti credere, e quando riescono a trovare qualcuno su cui sfogarsi lo fanno e basta. Poi ci sono i bullatti a ricreazione, l'unico momento in cui potresti abbassare la guardia e rilassarti. Rubano, fumano e cercano qualche ragazza da farsi nei bagni. Già, le ragazze. Ti vengono dietro solo se sei uno figo, uno tosto o, semplicemente, uno ricco. Amano i soldi e i muscoli, non te. 

Io sono quello su cui i professori si sfogano. Sono quello a cui i bulletti rubano i pochi soldi che ha. Sono quello che le ragazze non considerano affatto. 

Quando torno a casa il marito di mia madre è al lavoro e lei sta intrattenendo un qualche amico. Non so come faccio a rimanere impassibile a tutto questo, ma credo di essermi semplicemente rassegnato. 

 Vado diretto in camera, slato il pranzo, tanto mia madre non ha fatto nulla da mangiare. Mangerò qualcosa più tardi, probabilmente. Getto lo zaino in un angolo della stanza, mi butto sul letto e ascolto la musica che esce dagli auricolari. A volte guardo la foto di mia sorella sul comodino. 

È morta cinque anni fa. Cancro. Mia madre non ha neanche provato a salvarla. L'ha lasciata andare. Lei ha combattuto, ma non ha potuto farci nulla. Io ho smesso di andare a scuola, mi sono trovato un lavoro e ho speso tutto quello che avevo pur di comprarle le medicine. Non è servito a nulla. Se ne è andata in un giorno d'estate in cui pioveva. Il cielo piangeva la perdita. Mi manca ogni giorno di più e spero che da lassù mi guardi o almeno mi pensi, ogni tanto. Le ho voluto bene, le voglio bene e le vorrò sempre bene. 

Resto sul letto un paio d'ore poi vado a correre. Corro come se qualosa mi inseguisse, corro fino a non avere più fiato e poi mi fermo. Poggio le mani sulle ginocchia, piegato in due e respiro piano. Torno a casa, provo a fare i compiti, mangio qualcosa e poi vado a letto. Mia madre non mi ha parlato per tutto il giorno e suo marito ancora non mi ha visto, per fortuna. 

Accendo lo stereo e le note escono prepotenti. Mi salvano appena prima del crollo. 




Storie di vite vissuteWhere stories live. Discover now