DISMORFOPHOBIA

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È LA FOBIA CHE NASCE DA UNA VISIONE DISTORTA CHE SI HA DEL PROPRIO ASPETTO ESTERIORE, CAUSATA DA UN'ECCESSIVA PREOCCUPAZIONE DELLA PROPRIA IMMAGINE CORPOREA.

Qual è la prima cosa che nota di me? Che sono diverso. Non importa quello che gli altri dicono, io mi sentirò sempre diverso. 

Sono cresciuto in una famiglia con dei sani principi, i miei genitori erano sposati e avevano entrambi un lavoro rispettabile, andavo a scuola come tutti gli altri bambini, giocavo ai videogiochi, per il mio decimo compleanno ho chiesto una bicicletta come tutti, collezionavo le figurine, mangiavo, dormivo e respiravo come tutti i bambini. 

Eppure ero diverso. L'ho sempre saputo.

Sono nero. La mia pelle è scura e a molta gente questa differenza no è mai andata giù. Sono tante le persone che mi chiedono se mi manca il mio Paese, come ci si trova in Africa, se stia meglio qui o là. Ma quello che loro non capiscono è che io, l'Africa, prima che in terza elementare ci facessero organizzare una raccolta fondi per i bambini che non avevano da mangiare, non sapevo nemmeno esistesse. Certo, i miei genitori me ne avevano parlato ma non ci avevo mai dato peso, non li avevo mai ascoltati, perchè a otto anni, ogni bambino ha altre cose per la testa, che ascoltare gli adulti che gli parlano di una terr sconosciuta e lontana.

Da piccolo, mi chiedevo per quale motivo i miei compagni di classe fossero chiari mentre io ero scuro. Mi piaceva questa cosa. Mi sentivo unico, insostituibile. Insomma, se io fossi andato via, ci sarebbe rimasta soltanto un'unica massa bianca. Noiosa. Invece io ero come la puntina di caffè nel latte, un punto nero su un foglio bianco. Mi notavano subito ed ero sempre al centro dell'attenzione. Da piccolo andava alla grande.

Poi le cose sono cambiate. 

Più crescevo e più mi rendevo conto che il colore della mia pelle non andava bene alle persone. Più crescevo, più cominciavo a desiderare di avere la pelle più chiara e me ne vergognavo. Mi vergognavo di essere diverso, mi vergognavo delle mie origini, e mi vergognavo di pensare queste cose. Non ne ho mai parlato con i miei genitori, perchè sapevo che si sarebbero arrabbiati, che sarebbero rimasti delsi da me. Loro non avevano cresciuto un figlio così.

Rabbia, rancore e delusione hanno iniziato a gonfiarsi sempre più dentro di me e io non sapevo come liberarmene. È stato il periodo più brutto della mia vita. Qualsiasi cosa andava bene pur di dimenticare il mio colore, le mie radici. Droga, fumo, alcol, qualunque cosa. Compagnie sbagliate, prove di coraggio, bullismo, fino ad arrivare ad una rapina. A mano armata. Un uomo è rimasto ucciso. Io ero uno di quelli che erano entrati, a volto scoperto, da vero principiante quale ero. 

Mi ricordo gli occhi dell'uomo, la sorpresa nel vederci entrare con le pistole in pugno, la paura quando gliele abiamo puntate addosso e la rassegnazione quando gli abbiamo intimato di svuotare la cassa di tutto quello che aveva. Poi ho visto la piccola, minuscola scintilla di coraggio balzargli davanti alle pupille, la consapevolezza che forse non era tutto perduto, che poteva esistere una maniera per contrastarci, anche se in quel caso, sarebbe stato uno scontro di uno contro cinque. Ho visto il mio compagno sparargli, a sangue freddo, solamente perchè la decisione dell'uomo, che io pensavo fosse qualcosa del tipo "ora predo il fucile a canne mozze che tengo sotto il bancone e che penso nessuno abbia ancora visto", era stata quella di alzare la mani improvvisamente, per provare a calmarci e parlare.

Ma era un periodo nero per la compagnia: la droga ci aveva consumato e dovevamo un bel po' di soldi a diversi spacciatori. L'incasso di quel piccolo mini market ci serviva, qualsiasi fosse la cifra a cui ammontava. Ma serviva anche a lui, per sfamare la sua famiglia. 

Il mio amico gli ha sparato. Lo ha ucciso. E hanno fatto ricadere la colpa su di me. Il ragazzo più giovane del gruppo, l'ultimo arrivato, quello che ancora non sapeva come andasse quel mondo. Alla fine hanno scoperto che non ero stato io a sparare, dato che non possedevo un'arma ne ne avevo mai impugnata una. Ma sono andato in prigione lo stesso. Dopotutto avevo preso parte alla rapina. 

Sono stati sette mesi di inferno. Non riuscirò mai a scordarmeli. Il peggio del peggio. Sono uscito cambiato, sono uscito diverso, migliore o peggiore non lo so. 

La rabbia e tutto il resto non avevano fatto altro che aumentare dentro di me, impedendomi di provare normali emozioni, quali l'amore, la gioia, la serenità, la tranquillità. Non riuscivo a trovare nessuna valvola di sfogo, nonostante la cercassi con tutte le mie forze. 

Dopo la prigione ho cominciato a vivere da solo, dato che la mia vecchia compagnia era quasi tutta in prigione per crimini minori oppure era morta. Vivevo alla giornata, con quello che riuscivo a racimolare lavorando in qua e in là, e non avevo una dimora fissa. Non sapevo cosa fare della mia vita, nè sapevo se se ne potesse fare ancora qualcosa.

Poi sono passato davanti alla palestra.

C'erano dei pugili che si allenavano. Ho capito all'istante che quello srebbe dovuto diventare il mio modo per sfogarmi. Ho cominciato a risparmiare ogni singolo centesimo che guadagnavo e quando ho avuto abbastanza soldi mi sono iscritto in palestra. 

Io non avevo niente a che vedere con quei bianchi imbottiti di farmaci. Tutto quello che avevo io era tanta forza di volontà e muscoli di acciaio. Con tutti i lavori che facevo, come il facchino o in porto a scaricare merci quando mi capitava, mi ero fatto i muscoli.

Nessuno poteva competere con me. Nessuno poteva battermi.

In breve tempo ho scalato le classifiche e ho vinto tutti i premi della città, per poi passare a quelli statali e alla fine anche un titolo mondiale. Sono diventato quello che la gente diceva non sarei mai potuto essere. 

Sono qualcuno. 



Storie di vite vissuteWhere stories live. Discover now