Il mio Nick?

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Da quando era entrata nel corpo di polizia si era scoperta in qualche modo dipendente dal caffè. Miscela leggera ovviamente: non era del tutto sicura che i conigli potessero berlo, dall'alto dei loro oltre duecento battiti medi al minuto.

Ascoltando la macchinetta ronzare non riuscì a stabilire se quello che sentiva fosse preoccupazione, terrore, sconforto oppure un abile miscuglio delle tre, una particolare formula alchemica che mal si sposava con l'idea che si era fatta una buona parte di Zootropolis di Judy Hopps. Al segnale della macchinetta, prelevò dalla vaschetta il suo bicchiere di latte caldo e si arrampicò sulle sedie della zona ristoro senza particolare convinzione. Il latte, perché qualunque altra bevanda selezionabile dalla macchinetta sarebbe stata deleteria per la sua ansia, che le faceva galoppare il cuore ed allo stesso tempo la faceva sentire così mogia e triste.

Il sole entrava attraverso la finestra del corridoio congiungendosi timidamente alla luce fredda dei led che illuminava l'ambiente, come se anche lui capisse la drammaticità della situazione e fosse restio a mostrare tutta la brillantezza dei suoi raggi. Attorno a lei, un viavai contenuto di persone e medici ed infermieri accompagnato da un cicaleccio di voci e versi e guaiti ed uggiolii. In lontananza, lo squillo insistente di un telefono rimaneva inascoltato. Alzò gli occhi verso il corridoio:quella curva ad angolo che portava alla camera di Nick le faceva venir voglia di urlare con quanto fiato aveva in gola.

Di frustrazione, per non essere stata in grado di fare nulla che non fosse tremare e sparargli nel collo quella siringa di antidoto; di preoccupazione, per le condizioni in cui versava il compagno quando era arrivato in quel luogo; di rabbia, per averci messo fin troppo tempo ad aprire uno stupido lucchetto.

E di terrore; terrore per quegli occhi che aveva visto sul muso di Nick quando aveva premuto il grilletto. Terrore per quello che aveva letto in quegli occhi. Terrore per quello che non aveva letto in quegli occhi.

Niente

Sentì una paura nuova salire, una paura provata solo una volta in tutta la sua vita ma in qualche modo diversa, diversa da quella che aveva visto Gideon Gray quando l'aveva marchiata con quei tre graffi nascosti dalla sottile, fitta peluria del muso. Era quella: quella, ma diversa.

Diversa perché da un bulletto prepotente come Gideon Gray una cosa come quella poteva anche aspettarsela; diversa perché era una cucciola e la paura di allora, così acerba e nuova e strana, era stata naturalmente amplificata; diversa perché, oltre a tre graffi sul muso, Gideon Gray non poteva farle nulla.

Ma quella volta non era stato Gideon Gray, ma Nick Wilde; quella volta la paura si era palesata come vecchia amica, un sentimento già provato ma nuovo ogni volta; quella volta, se avesse sbagliato, Nick Wilde non si sarebbe limitato a tre graffi sul muso.

In quei due giorni passati nell'ospedale si era ripetuta talmente tante volte che quello che aveva visto non era Nick da aver perso il conto. E ci credeva, sapeva che non era stato Nick a rivolgerle quello sguardo insondabile, ma

la nemica naturale per eccellenza dei conigli

un'altra volpe, feroce, sconosciuta, con il pelo arruffato, la divisa stracciata ed il muso sporco di sangue. Decisamente, quella volpe non poteva essere Nick. Il suo Nick. Saltò giù dalla sedia e, gettato il bicchiere verso il cestino, si diresse con passo spedito verso la stanza del collega.

(Il mio Nick?) pensò, prendendo coscienza dei suoi pensieri. (E da quando? Da quando è il MIO Nick?). Quel pensiero, quella frase dai risvolti così poco professionali e molto sentimentali la fece rallentare; glissò istintivamente dall'argomento, riconoscendo che semmai il diretto interessato l'avesse scoperto non ci sarebbe stato limite alle frecciatine giocose e prese in giro di cui sarebbe stata oggetto.

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