You never fell in love.

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"È stato un richiamo breve, ma... fortissimo. Era già capitato, ma non era mai stato così forte." Feci per portarmi una mano sul petto, ma la ritrassi subito.
Ormai il mio cuore aveva smesso di battere da tempo.
Sospirai, sententendo quelle particolari e ritmiche pulsazioni sotto il mio pollice, premuto contro il suo polso.
Era stato un gesto involontario.
Un gesto stupido.
Come se mi fossi dimenticato che sul mio petto non avrei sentito nulla, nessun calore, nessun macchinario movimento, sotto la mia pelle. Dio mio, nemmeno la mia pelle si poteva più definire tale.

°°°

"M-mi dispiace."
Con una smorfia, tamponai la busta di surgelati sulla guancia, sospirando alla sensazione di sollievo che una goccia fredda mi diede scorrendo sul mio collo e attraversandomi il petto macchiato di lividi.
"Mikey, non colpa tua."
Non rispose. Restò così, con la testa bassa e le braccia incrociate, seduto curvo sul bordo della vasca. Allora parlai io.
"Non devi dirglielo."
mosse il ciuffo biondo sugli occhi, stringendo quel patto che non che non ci sarebbe stato nemmeno bisogno di pronunciare. Nostra madre aveva già abbastanza pensieri per la testa, era meglio che non si dovesse preoccupare anche di questo. Quando sarebbe tornata da lavoro, di sera, io e Mikey saremmo stati già nei nostri letti, e di mattina non sarebbe andata a lavoro prima che ci fossimo avviati a scuola, non ci sarebbe stata alcuna possibilità di incontrarla fino alla fine di quella settimana. Dovendo anche rinunciare anche a qualche lavoro part time, per evitare qualsiasi rischio. Ovviamente non potevamo evitare nostra madre per sempre, ma cercavamo di far quadrare la situazione almeno per il momento.
"Forse sarebbe meglio marinare la scuola." Disse improvvisamente, la voce morta e flebile. Lo guardai stranito.
"E pensi che prima o poi non salterà fuori?"
Restò immobile per qualche secondo, poi fece spallucce. Posai la busta, ormai umida, infilai distrattamente la maglia e mi sedetti accanto a lui.
"Non preoccuparti. Non penso che quei tre si faranno vedere per un po'."
Pensai alle parole che avevo appena detto. Pensai al modo in cui le avevo dette. In modo così naturale, così sicuro, forse con un pizzico di soddisfazione, con un pizzico di avidità, come il sentore piccante abbastanza forte da pizzicare la punta della lingua, il fastidioso sassolino nella scarpa.
"Come fai ad esserne tanto sicuro?"
"Fidati di me."
Dopo quelle parole, fui assalito da un penetrante dolore al petto e allo stomaco, un dolore che si affievolì con il calore che mi davano le braccia di mio fratello stringendomi. Avvicinai la mia testa al suo orecchio e, cercando di mantenere un tono che non gli facesse ritornare a galla i sensi di colpa, gli dissi di avvisarmi la prossima volta che fosse successa una cosa del genere, lui annuì e mi lasciò, uscendo a testa bassa.
Ero da solo.

Avevo un'altra questione da risolvere.
Uscii dal bagno e mi sedetti sul letto, guardai il soffitto per un po', ripetendomi in mente domande già ovvie, che avrei dovuto fargli. Misi i gomiti sulle ginocchia e presi un respiro profondo, costringendomi a tirar fuori la voce.
"Frank."
Aspettai. Aspettai nel suono secco delle lancette dell'orologio, che mi colpivano come proiettili. Lo richiamai, alzando la voce. Solo alla terza volta, davanti a me si espanse un telo scuro e morbido.
Vidi la sua figura farsi più nitida man mano che il fumo si dissolveva, era di spalle, potei vederlo barcollare un po', inizialmente, cercare di riacquistare equilibrio come un cervo appena nato, e poi mettersi dritto, con le spalle rigide.
Non disse una parola.
"Frank, vorrei sapere cosa è successo a quei ragazzi."
Questa, era la prima domanda. Vedendolo arrivare in quel modo, avrei voluto anticipare la seconda e la terza, ma dovevo seguire l'ordine che mi ero prefissato, non potevo rimanere all'oscuro di quello. E poi ero certo che non avrebbe risposto alle altre due.
"Dipende da te." Disse, la voce stanca, flebile, si sgretolava ad ogni lettera come un mucchio di sabbia al vento.
"Cosa intendi?"
"Tu cosa intendevi per 'vendetta'?" Sbarrai gli occhi.
"Q-quindi tu non lo sai?"
Scosse la testa, alzando le spalle, senza voltarsi.
Caddi in un tornado di pensieri. Cosa avevo fatto? Cosa avevo desiderato? In cosa consisteva la mia vendetta? Restammo entrambi così, immobili, per qualche minuto. Alla fine giunsi alla conclusione che, se Frank non lo sapeva, solo il tempo avrebbe mi avrebbe risposto.
"Questa mattina -ripresi- stavi dicendo qualcosa sullo stare lontano da... -mi fermai un attimo per pensare a quale termine avrei dovuto usare, poi mi decisi ad usare quello che usava anche lui, sperando che almeno notasse la mia indecisione sul pronunciarlo- dal proprio padrone. Cosa succederebbe, Frank?"
Finalmente, fa qualche passo, ma ancora non mi guarda, nè mi parla.
"Frank -si precipita su una sedia, l'impatto provoca una piccola nube che si dissolve velocemente- credo che dovremmo passare un bel po' di tempo insieme, e durante questi giorni penso che ci siamo anche... conosciuti, a modo nostro. Quindi mi piacerebbe se mi spiegassi almeno perché non vuoi rispondermi. Solo questo. Ti prego."
Buttò la testa indietro, mostrando fin dove le sue "X" si erano diramate.
Non sono mai stato un tipo speranzoso, nè una persona che guarda il lato positivo, e mai mi sarei aspettato che Frank mi avrebbe davvero degnato di una risposta, ma poi lo sentii. E la sua voce sembrava trascinarsi su dalla gola come il rumore che fa la carta stagnola quando viene strappata.
"Tu non mi conosci affatto."
Mi alzai in piedi.
"Dammene la possibilità."
Si alzò anche lui, e quasi cadde, cosa che mi fece fare qualche altro veloce passo in avanti, ma poi un soffuso serpente nero lo avvolse e scomparì, ridandogli equilibrio.
"Ma allora non capisci -mi puntò un dito al petto, pensai per un attimo a come quell'azione mi avrebbe terrorizzato qualche settimana prima, ma adesso sembrava così debole- io ti ho detto il mio nome."
Mi guardò con il volto con cui si guarda un piccolo animale in fin di vita, un espressione pietosa e disgustata insieme, e pronunciò quest'ultima frase con un tono basso e trattenuto, come se fosse un terribile segreto.
"E se io volessi sapere di più? E se io... desiderassi saperne di più?"
Rise amaramente.
"Non lo faresti."
"Perché."
"Non sprecheresti dei desideri per conoscermi." Rispose secco, come fosse una battuta di cattivo gusto.
"Frank."
Mi guarda, e lo vedo. Un attimo, un esitante sentore spento prima di poter essere osservato meglio, la scintilla di una fiamma ossidrica sul ferro, che si esaurisce prima di toccare il suolo. Negli occhi di Frank, avevo visto il terrore.
"Desidero che tu mi dica cosa ti succede stando lontano me."
Credevo si sarebbe rifiutato ancora, riuscivo già a vederlo, con i cappeli infiammati e gli occhi neri, che gridava con una voce disumana, una voce non sua.
Ma l'unica cosa che sentii fu una nota, accompagnata da un fruscio di parole.
"Si soffre."
Mi guarda, dopo tutto quel tempo, mi guarda, e adesso sono io che non riesco a sostenere i suoi occhi, piatti e senza luce come una lastra di metallo.
"Fa male."
Continua.
"Ti senti stanco come restando sveglio per settimane, ma non puoi addormentarti. L'illusione del proprio corpo svanisce lentamente, ma non è quello che più fa stridere i denti, no. È la consapevolezza. Il promemoria di essere fatti di fumo."
Mosse una mano in aria, davanti al suo viso, e le sue dita si dissolsero, lasciando della polvere scura volare via come i petali di un soffione. Mentre mi porto involontariamente una mano sul viso, lui chiude velocemente il pugno, e le sue dita riappaiono, contratte, le nocche sbiancate.
"L'illusione..." riesco appena a farfugliare, ma le parole mi si sciolgono sulla lingua. Sorrise appena. Un sorriso fatto come d'abitudine, uno scudo di cartone contro una natura in cui credeva di essere abituato a vivere.
"Credi davvero che io sia fatto di carne e ossa?"
Rimasi in silenzio. Non volevo più chiedere altro. Non volevo. Ma lui sapeva perfettamente qual era la domanda che mi ero prefissato, e che adesso rimaneva sepolta sotto i cumuli delle sue parole.
Sembrava che mi leggesse nel pensiero, e, dopo quello che disse, mi chiesi se ne fosse davvero capace.
Perché ti stai allontanando da me?
"Fidati, Gerard, con te soffrirei molto di più della pena stessa a cui sono condannato."
Per la prima volta da quando lo avevo conosciuto, sperai che il discorso finisse lì, che chiudesse la bocca e sparisse come al solito. sperai di non aver mai espresso quel desiderio.
Ma lui continuò, iniziando a fare grandi passi per la stanza.
"Sai, ho creduto che con te sarebbe stato diverso."
Ad ogni passo che faceva una nuvola sempre più grande e più scura sommergeva il perimetro in cui si trovava. E io non riuscivo a spiegarmi perché le sue parole mi stessero bruciando così tanto.
"Frank, non ti ho chiesto di..."
Nel profondo, insieme alla domanda a cui aveva brutalmente risposto, era sepolto anche un briciolo di preoccupazione. Pensai che se Frank non se la sentiva di rispondere a domande più personali, non dovevo costringerlo, perdipiù sfruttando i desideri.
Ma lui non si fermò.
"Io ti dico che posso avverare qualsiasi tuo personale desiderio, che posso darti qualsiasi cosa tu abbia mai bramato, e tu cosa mi chiedi? La pace nel mondo?!" Alzò le braccia al soffitto.
"Tu non te ne rendi conto. Proprio non te ne rendi conto."
"Di-di cosa?" Mi sentivo un sacco da box, incassavo colpi senza potermi difendere in alcun modo, non riuscivo a pensare a qualcosa di sensato da dire.
"Tu non puoi nemmeno immaginare quanto -la voce gli divenne dura e le dita delle sue mani diventarono rigide radici, come se stesse stringendo qualcosa di invisibile- di quanto siano disgustose, e avide, e perverse le persone."
Fermò la sua marcia proprio quando sentivo quella nebbia soffocarmi, quella densa foschia rendeva tutto opaco, ma lui lo vidi in modo chiarissimo. Vidi in modo chiarissimo il suo viso piazzarsi a pochi centimetri dal mio, i suoi occhi traboccanti di un miscuglio di odio e terrore, vidi in modo chiarissimo le sue labbra tremare, labbra che si mossero appena, lasciando fuoriuscire un lieve sussurro.
"Tu non puoi immaginare quello che mi hanno costretto a fare. Quello che mi hanno ordinato di diventare, quello che mi hanno imposto, quello... quello che mi hanno fatto..." la sua voce si strinse su se stessa ad ogni parola, e i suoi occhi caddero spalancati sulle sue mani, come se stesse rivedendo su di esse ciò di cui stava parlando.
Quello che disse dopo, quello che mormorò, il fruscio del vento che si insinua in una finestra semiaperta, il cigolio di una porta, colpì le mie orecchie con l'impatto di una bomba.
"Io ho ucciso, Gerard."
Volevo fare qualcosa, ma ero pietrificato.
"Lo sai, cosa si prova, ad uccidere qualcuno?"
Ovviamente sapeva la risposta, ma credo si fosse dimenticato completamente della mia presenza.
"Sentire il battito di un cuore accelerare ed arrestarsi, insieme al suo respiro, insieme al suo sangue, al calore della pelle, alla lucidità degli occhi. Sentire un corpo inerme tra le proprie mani smettere di dimenarsi. E non poter fare assolutamente niente. Perché sono solo un servo."
Da come era contorta la sua espressione mi sembrò che stesse piangendo, ma poi alzò il volto, e non c'era nemmeno una lacrima.
"Volevi sapere come è successo." Cercai di evitare quello sguardo, ma sembrava inseguirmi incessantemente.
"Frank, non devi." Farfugliai.
Fece qualche passo indietro, la foschia si dissolse un po' intorno al suo corpo, e, nella mia confusione, si tolse la chitarra e la adagiò sul letto. Iniziò a tirare giù la zip della giacca nera.
Se la sfilò con cura e buttò anche quella sul letto al suo fianco, si tolse lentamente i guanti, poi tirò su le maniche della sua t-shirt a righe bianche e nere, mostrando una miriade di tatuaggi incastrati sulla pelle delle braccia, qualcuno era colorato, qualcuno era una parola, era difficile dirlo con quella nebbia. Ma a poco a poco questa si dissolse, e Frank portò le braccia in avanti, e io mi ritrovai con la schiena al muro e una mano sulle labbra per lo stupore.
"Non è un bello spettacolo, vero?"
Dall'avambraccio in giù, sulla sua pelle si aprivano dei solchi, sembravano profondi, qualcuno era rossastro, qualcuno era come rimarginato, qualcuno incontrava un altro graffio in un reticolato di ferite che terminavano al polso, alcune arrivavano prepotenti fino al palmo.
"E vuoi sapere una cosa? -si avvicinò, senza abbassare le braccia, con gli occhi spalancati, io mi spinsi più forte contro la parete- riesco ancora a sentirla. Ogni secondo, di ogni ora, di ogni giorno, da anni che non riesco nemmeno più a contare, sento la lama del coltello farsi strada tra la carne. Forse è questa la punizione per chi ha tutto ma è troppo egoista per vederlo." Disse quest'ultima frase in un sommesso sussurro.
Restai qualche secondo a guardare quelle braccia, e poi il mio corpo si mosse da solo.

Mi ritrovai a stringerlo, mi ritrovai con la guancia sui suoi capelli, con le mani che gli avvolgevano il busto, e ancora una volta mi chiesi di sfuggita come facesse una sensazione così intensa ad essere tutta un illusione. Sentivo freddo, ma non importava. Restammo così qualche secondo.
"Gerard." Parlò contro la mia spalla.
"Sì?"
"Che ore sono?"
"Sarà l'una."
"La vuoi sapere un'altra cosa su di me?"
"Sì."
"È il mio compleanno."

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