Ryan makes amends - Parte Seconda

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Come se non bastassero i problemi che già la produzione dei Rovi covava, ci si metteva pure Cameron che ormai entrava in discussione anche con i muri. Era bastato un piccolo accenno, durante un brainstorming con gli sceneggiatori, a ridimensionare il ruolo del vampiro Ewan nella storia, per dare fuoco alla sua miccia e fargli concludere la discussione sbattendosi la porta alle spalle. Era tutto un incubo.

Era un insulto al suo lavoro sul personaggio.

Era una tortura, perché lo metteva nella posizione di difendere il lavoro di Jason Grant in un momento in cui non avrebbe voluto minimamente pensare a lui.

Ma, più di tutto, era ingiusto: l'unico motivo per cui la produzione era tentata di 'mettere in quarantena' il personaggio e l'interprete era per la notizia dell'omosessualità di quest'ultimo. Lo rendeva non vendibile, non, almeno, come avevano sperato a inizio serie. Ritenevano per certo che le ragazzine che seguivano il telefilm avrebbero smesso, adesso, di interessarsi a lui. E per Cameron, gay dichiarato, quel tipo di dinamiche non dette ma ben chiare erano sempre uno schiaffo in faccia. Ci mancava solo sentirsi 'sbagliato' nel suo lavoro – anche se era Jason quello che veniva messo sotto Inquisizione, la sua questione riguardava qualunque persona omosessuale trattata come merce di serie B se non acconsentiva a rientrare in certi schemi.

Così aveva lasciato gli uffici con la chiara consapevolezza di rischiare di venire silurato. Ma cosa importava, ormai? In fondo, non voleva più essere costretto a lavorare con Jason. Non voleva più vederlo. Era a pezzi.

Uscì dagli studi, con la voglia matta di chiudersi in un bar a bere o nell'appartamento di Scott a scopare. Non sapeva nemmeno se ne avrebbe avuto le energie, però, al momento. Si accese una sigaretta. Gli tremavano le dita per la tensione.

"Cameron" lo chiamò una voce in avvicinamento. Una voce nota, che gli suonò come un errore della sua percezione.

Tirò su gli occhi arrossati e trovò Ryan, che camminava verso di lui, un'espressione neutra, quasi intimorita. Non poté credervi.

Era come l'aveva visto la prima volta. La stessa maglietta bianca, la stessa giacca di jeans che aveva indosso quando avevano camminato verso le spiagge, la prima sera. Parve quasi un'apparizione spettrale da un passato che aveva fatto di tutto per seppellire.

Ryan aveva notato la sua brutta cera; nessuno avrebbe potuto ignorarla. Così disse: "Cameron... Tutto bene?"

"A te che importa?" rispose questi aspro. "Vattene."

Quell'ultima parola era così carica di ostilità che Ryan indietreggiò di un passo come se ne fosse stato colpito fisicamente. Stava buttando acqua su un filo elettrico in corto circuito, doveva smetterla immediatamente. Ma non poteva.

"Mi importa di te" disse. "Specie quando la situazione è questa."

La sigaretta di Cameron cadde e lui fissò l'altro con tanto d'occhi. Non era sicuro che ciò che aveva udito stesse veramente accadendo. "Che vuoi da me, si può sapere?"

Stavolta i passi Ryan li fece in avanti. Si guardò intorno, e poi più sicuro parlò: "So come mi vedi. Ma la realtà è che... Dopo quello che è successo tra noi, mi sento così in colpa nei tuoi confronti che mi sembra sempre di dover fare qualcosa. Considerato poi che tu stesso, quando è venuta fuori la storia di Jason, hai subito pensato che fossi stato io, quando invece non era vero..."

"Non devi fare niente. Ascolta. Non nominare Jason. Non farlo" sbottò Cameron. Mise le mani in tasca, trovò le chiavi della macchina. Si chiese se fosse meglio piantare in asso Ryan e andarsene nel garage, ignorandolo. Aveva già abbastanza problemi senza mettere in conto i suoi film mentali. Eppure, al momento, lo vedeva e lo percepiva come attraverso una nebbia. Non faceva più male come poche settimane prima; ogni altro dolore della sua vita era stato ingoiato da quello per Jason.

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