Quarantasette

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Lunedì 4 dicembre mi trovavo a casa mia, sul mio solito posto a destra sul divano, con Birillo accucciato al mio fianco e la televisione accesa su Focus. Stavano dando un documentario sui babbuini e il loro sedere privo di peli mi ammaliava.

Non riuscivo a capire se il lavoro mi mancava.
Mi mancava Roma, mi mancavano i miei colleghi, ormai amici, mi mancava il mio monolocale, mi mancavano gli studios, mi mancavano le mie abitudini.
Quando ero a Roma mi mancava il mio paesino, la mia famiglia, i miei amici, ed ero arrivata alla conclusione che ovunque io andassi o finissi, qualcosa mi sarebbe sempre mancato.
Il lavoro non era nemmeno così stimolante, io avevo i compiti meno importanti ed ero più un call center che una della redazione, ma mi mancava la mia scrivania piena di fogli non miei, la vicinanza con la Marina e Paolo, le telefonate con i clienti maleducati e con quelli prolissi. Mi mancava sentirmi parte di qualcosa di importante.

Continuavo, mentalmente, a elencare tutto quello che mi mancava e che mi sarebbe mancato, facendo giri pendarici per evitare di pensare alla persona che mi sarebbe mancata di più.
Sospirai, in ogni caso non potevo più vederlo.
Sospirai ancora. Se l'amore era quello che provavo io, faceva schifo.
Soffrire inutilmente per la distanza, era quello l'amore? Perché scrivere canzoni su un sentimento del genere?

Bofonchiai qualcosa quando il cellulare mi vibrò nella mano sinistra, quella che non usava per tastare e accarezzare il mio cagnolino.

Michelo Merlo:
Allora?

Roteai gli occhi al cielo, farfugliando un "che palle".
Avevo chiesto a mia madre e seppur continuava a dire dopo ogni frase "non vorrei andare contro la giustizia" mi disse dove si trovava la madre di Mike: Scampia.
Apparentemente aveva avuto problemi con la legge perché aveva tentato di contattare il figlio o il figlio era riuscito a contattarla - questa parte non mi era molto chiara - ed era stata "costretta" a scappare.
Personalmente, e dopo aver visionato le due stagioni di Gomorra per un paio di volte, ero finita a pensare che avesse scelto il posto giusto, lontano dalla giustizia. Era una donna cosciente e furba.

L'unico problema era che non ero mentalmente pronta a viaggiare per ore in treno, non ne avevo semplicemente voglia. Ero appena stata mollata teoricamente e licenziata, perché dovevo aver voglia di fare qualcosa che non fosse mangiare?
Per non diventare una botte, mi ricordò la mia coscienza.
Sbuffai e poggiai la testa contro lo schienale del divano. Dovevo prendermi cura del mio fisico, non remarci contro perché ogni altro aspetto della mia vita stava cadendo a pezzi.

Ripetei, credo, per sei volte un "fanculo" borbottato e all'inizio del settimo decisi di alzarmi dal divano per andare a fare pipì e schiarirmi le idee.
Facendo pipì capì che per me, come ogni altra volta, per comprendere meglio le situazioni necessitavo di carta e penna.
Ero una di quelle persone che per capire le cose aveva bisogno di scrivere.

Andai oltre il divano bianco su cui Birillo era comodamente svaccato e andai al mobilio compatto del mio salotto per prendere un foglio bianco dalla stampante.
In piedi, mi guardai intorno e ci misi qualche secondo per capire dove fossi. A casa mia.
Le penne si trovavano nella mia camera.
Scossi la testa e feci una corsetta per le scale, per recuperare il necessario. Arrivata al primo piano, persi un polmone per strada ed ebbi un paio di infarti che mi portarono a rimanere sdraiata sul pavimento in linoleum, con una drammatica mano posta sulla fronte.
Mi alzai quando Birillo venne da me e dall'alto iniziò ad osservarmi con i suoi occhioni, prima di annusarmi e darmi una leccata sulla mano.
Gli sorrisi, lo accarezzai e dopo qualche parolina detta con una vocina che dedicavo solo a lui, mi alzai e andai a recuperare la penna, decidendo infine di sedermi alla mia scrivania color cenere e iniziare a scrivere.

The bird has flown awayDove le storie prendono vita. Scoprilo ora