PROLOGO

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  - Per quanto mi riguarda è tutto a posto, signorina. Può tranquillamente tornare a casa. -

Tranquillamente...

La ragazza continuò a fissare la finestra soffocando un singhiozzo.
Non aveva mai versato una lacrima da quando tutto era successo. Mai.
Sapeva di fare la cosa giusta.
Sapeva che quella era l'unica soluzione per salvare quell'anima innocente.
Decidere di non metterla al mondo era stata la scelta più coraggiosa che avesse mai preso in tutta la sua vita e non lo aveva fatto per se stessa, lo aveva fatto solo per lui... o per lei.
Chiuse gli occhi ripensando a quella semplice parola: tranquillamente.
Era stata forte fino a quel momento, non aveva lasciato trapelare nessuna emozione, ma d'altronde era da tempo che questo non le costava più nessuno sforzo. Ormai lei era solo un insignificante guscio vuoto, un riflesso sbiadito di se stessa.

Sopravviveva, questo faceva.

- Signorina, si sente bene? -

La voce imperturbabile e fredda del medico la ridestò, riconducendola con prepotenza nella realtà di quell'asettica stanza d'ospedale. Con lentezza portò i suoi occhi spenti su quelli del chirurgo e dopo averlo fissato per alcuni secondi annuì. Notò un leggero tremore scuotere le spalle dell'uomo, il quale forse aveva letto nel suo sguardo qualcosa di terribile e angosciante. Lo vide infatti sistemarsi con nervosismo gli occhiali sul naso e provò quasi un leggero senso di colpa per aver pensato male di lui. Per averlo giudicato.

Chi era lei per farlo?

In fondo lui svolgeva soltanto il suo lavoro, non poteva certo pretendere che si lasciasse sopraffare o coinvolgere dall'umore o dalle vicende personali di tutti i suoi pazienti.
Accennò quindi un amaro sorriso - Sì, certo, sto bene. - rispose alzandosi dal letto, al termine della visita.

Andò a recuperare la borsa dall'armadietto e quando si voltò lo ritrovò ancora fermo a fissarla.
Gli si avvicinò, gli tolse dalle mani il foglio di dimissioni e dopo avergli rivolto un cenno di saluto con la testa si diresse alla porta, superandola.

Quando entrò nell'ascensore ringraziò Dio del fatto che fosse privo di specchi, non si sentiva pronta per sostenere il proprio sguardo, quello stesso sguardo che pochi minuti prima era stato in grado di crepare il fitto strato di ghiaccio che avvolgeva il cuore del dottore.
Farlo l'avrebbe solo messa di fronte a ciò che aveva appena portato a termine. 
Quando la porta scorrevole dell'ospedale si aprì, lasciò che la brezza primaverile invadesse le sue narici. Respirò l'aria salmastra ridonando ossigeno ai suoi polmoni. Mosse appena qualche incerto passo, prima di lasciarsi cadere sfinita sui gradini in cemento che conducevano al viale alberato.
Strinse le ginocchia al petto, appoggiandovi sopra la fronte e si lasciò andare a un pianto disperato quanto liberatorio. Per un mese e mezzo aveva trattenuto quelle lacrime, tentando di somatizzare come meglio poteva l'angoscia che la stava divorando: un mese e mezzo, ovvero dal giorno in cui aveva scoperto di essere incinta.
Per tutto quel tempo aveva lottato contro quella parte di lei che la implorava di non farlo, quella parte che in maniera subdola tentava di convincerla che in quel modo non sarebbe più stata sola.

Quella parte aveva però perso in partenza.

Lei era tutto fuorché egoista e mai, per nessun motivo avrebbe condannato suo figlio a subire la sua stessa sorte.

Se lui lo avesse saputo...

Sollevò di scatto la testa, guardandosi intorno smarrita, e dopo essersi asciugata il viso si rialzò.
Controllò l'ora, erano le diciotto e lui sarebbe rientrato a casa un'ora più tardi, se non l'avesse trovata sarebbe scoppiato il finimondo e per quel giorno decise che ne aveva abbastanza. In più doveva evitare sforzi o movimenti bruschi, non poteva permettersi di farlo innervosire.
Doveva sbrigarsi, lavarsi di dosso il puzzo di ospedale e di disinfettante, doveva calmarsi e dar modo ai suoi occhi di sgonfiarsi.
Lui non doveva sospettare nulla, tutto doveva sembrare normale come sempre, non sarebbe mai stata in grado, quel giorno, di reggere a un suo interrogatorio. Le sue urla, quella sera, non le voleva sentire.

Sarebbe crollata.

I suoi nervi erano a pezzi e se non fosse stata attenta le sue ossa avrebbero fatto la stessa fine.
Rovistò nella borsa in cerca dei tranquillanti, l'unico mezzo che ancora l'aiutava a rimanere sana di mente e s'incamminò verso casa.
Abitava nella zona collinare e man mano che si avvicinava il profumo del mare si faceva sempre più leggero e l'aria meno umida. C'era poca gente in giro a quell'ora, aveva piovuto tutto il giorno e quindi, pur essendo primavera, nessun turista o lavoratore in fuga dalla grande città si era riversato lì, in quel paradiso della riviera che era la sua Sestri Levante.
Nonostante le raccomandazioni dei medici decise comunque di andare a piedi per far sì che l'aria fresca ridonasse tono alla pelle del suo viso.
Sì era già fatto buio quando svoltò l'angolo e cominciò a salire i gradini in pietra che la separavano dall'ultimo tratto di strada che l'avrebbe condotta a casa. Gli unici suoni che la circondavano erano gli allegri fischi dei merli e il fruscio delle foglie mosse da un vento leggero, per questo trasalì nell'udire dei passi smuovere il brecciolino appena dietro di lei.

Si rese conto solo in quel momento di quanto fosse stata sovrappensiero. Non si era accorta di avere qualcuno alle spalle fin quando quello non le fu quasi addosso.
Si voltò di scatto, sperando in cuor suo che si trattasse di qualche vicino di casa che, come lei, aveva deciso di non usare i mezzi pubblici.
Un urlo rimase soffocato all'interno della sua gola, incapace di trovare sfogo alcuno a causa di una mano che andò a tapparle con decisione la bocca.
Indietreggiò di un passo nel tentativo di liberarsi e nel farlo urtò con le gambe contro uno scalino, cadendo rovinosamente sulla schiena.
Paralizzata dalla paura, sollevò lo sguardo sulla figura che incombeva su di lei...

Gelo. Panico. Terrore.

- È imperdonabile ciò che hai fatto! -

Buio...

OBSESSI (sequel di Invicta)Where stories live. Discover now