Capitolo 2

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Ci sono luoghi che, anche se li vivi tutti i giorni, cambiano aspetto quando cala il buio.

La mia aula in prima media pare essere sempre la stessa: le pareti tappezzate con vecchi progetti e rovinate dalle scritte, la lavagna piena di graffi e il soffitto con le macchie di umido; eppure è diversa. Non è l'assenza dei banchi e della cattedra, però quel che c'è fuori dalle tre finestre: al posto del giardino sul retro si apre un cielo notturno coperto di nuvole che getta l'intera stanza in una minacciosa penombra. Con ciò che queste mura significano pensavo che non potessero peggiorare, ma mi sbagliavo.

Perlomeno sono l'unica qui, in piedi al centro dell'aula.

«Guarda chi c'è» dice improvvisamente una voce dal tono così familiare che mi fa girare, trovando proprio chi mi aspettavo che fosse. I denti bianchissimi incorniciati in un sorriso di scherno spiccano sulla sua pelle scura e nell'oscurità. «Sai che non possiamo lasciarti da sola.»

Le sue labbra non si muovono ed è come se quella frase risuonasse nella mia testa, come se gli stessi leggendo il pensiero. C'è soltanto lui nella stanza insieme a me e non capisco che intenda, però ho paura. Faccio un passo per allontanarmi diretta verso dove so esserci l'uscita, finché non mi accorgo che la porta della classe, l'unica via di fuga, è sparita...

Sono in trappola.

Il ragazzo mi afferra il braccio con una forza tale da costringermi a guardarlo in quei suoi occhi cattivi. Vorrei ribellarmi, ma mi sento indifesa, senza strumenti da usare contro di lui e la mia lingua ha paura di essere crudele. Non voglio essere una brutta persona. A un certo punto però da dietro la sua schiena appaiono due mie compagne di classe che, con lo stesso sguardo derisorio, si affiancano a lui. Mi chiedo come abbia fatto a non vederle, ma nel frattempo ne arrivano altri dallo stesso punto riversandosi nella stanza senza staccarmi gli occhi di dosso. Le ragazze rimangono più vicine per parlottare tra loro, indicandomi con le loro unghie rifatte e ridendomi alle spalle o allargandosi con le mani i fianchi sottili per imitare il mio corpo. Mi sono sviluppata prematuramente, non dovrebbe esserne una colpa, non l'ho voluto io, tuttavia quando sono circondata da fisici gracili ho l'obbligo di essere definita obesa.

Non lo fanno solo le femmine, però: anche alcuni ragazzi, quelli popolari in aula, imitano lo stesso gesto mentre le risate dei loro amici mi rimbombano nella testa amplificate. Vorrei fuggire, eppure ancora non ci sono porte e quelle finestre sembrano dare sul vuoto, come se l'unica soluzione fosse il suicidio. Non posso muovermi, ho solo la possibilità di assistere all'umiliazione mentre i miei compagni mi circondano. Ho bisogno di cercare un volto amico, qualcuno che non mi odi, e mi giro alla ricerca degli unici ragazzi normali, ma... anche loro fanno parte della tortura. Non ridono, non mi prendono in giro: sulle loro facce è dipinta un'espressione di disgusto e ribrezzo, tanto che alcuni addirittura distolgono lo sguardo pur di non guardarmi. Quindi è davvero questo che pensano.

Le risate continuano a martellarmi il cervello e si aggiungono i commenti alle mie spalle: grassona, cessa, puzzolente, contagiosa, strana, tossica... Gli stessi fottuti aggettivi che non ho fatto niente per meritarmi, mi son piovuti addosso per la colpa di non essere come loro. Voglio solo essere io...

«Adesso si mette a piangere» bisbiglia una delle ragazze a sinistra. Riconosco la sua voce nasale ancora prima di girarmi e appena incrocio i suoi occhi da stronza un forte brivido di rabbia mi attraversa il collo: la peggiore, un'idiota bocciata che riesce sempre a uscire dai problemi con quel finto sorriso e le sue origini mediorientali. La odio, lei per davvero.

Il ragazzo di fronte a me mi lascia il braccio gettandolo via, come se fosse sporco, poi da dietro la schiena afferra qualcosa.

«Te lo ricordi?» Tira fuori una bambola di pezza e me la mette davanti. È identica a me da piccola, ma il tessuto è stato strappato, è più scuro e puzza. La prendo e subito me ne accorgo: è bagnata. È bagnata come quel giorno al lago. «Te lo ricordi?»

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