Nostalgia // come quella volta in cui la pensò

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È un oggi, suppongo. Sono quasi certo sia oggi --- la giornata intendo. Tutti dicono che merdate di questo tipo necessitano di una data. È oggi, che ti penso, che mi manchi. È oggi.
Ma era anche ieri. Ho finto di non pensarci pure martedí. Ma il martedí del mese scorso. O di due mesi fa. È un po' sempre che affondo in questa nostalgia.


Nostalgìa s. f. [comp. del gr.νόστος «ritorno» e -algia (v.algia)]. – Desiderio acuto di tornare a vivere in un luogo che è stato di soggiorno abituale e che ora è lontano: soffrire di n.; in quei ballabili remoti, scritti su vecchi rigidi dischi, s'annida il grumo indistinto della n. e della gelosia: di quanto si vorrebbe richiamare in vita e non si può, e di quanto invano si vorrebbe non fosse statoaveresentireprovare la n. (una grandeprofondaintensa,acutastruggente n.) del proprio paesedella patriadella casadella famiglia. 

Sì, una benedetta nostalgia che mi mangia vivo, che approda in me ogni notte.

Notte: maledetto periodo del giorno in cui ci stendevamo sul letto (dopo che avevamo mangiato una pizza disgustosa  della signora sotto casa) e aspettavamo riproducessero un film adeguato.

Adeguato: quando tu, ad una certa, ti sollevavi dal letto --- che ti dovevo stare lontano. Odiavi il contatto fisico se non lo andavi cercando tu stessa. E ti alzavi, mi rivolgevi i tuoi begli occhi da cerbiatta e te ne sgattaiolavi in bagno.

Bagno: dove entravo spinto dalla curiosità e ti trovavo lì. Con i tuoi completi azzurri - peccavi di una purezza meravigliosa - e ti dicevo che eri bellissima. T'arrossavi in volto.

Volto: dove lasciavo una scia languida di baci intrisi di amore. Ti mordevo, scendevo alla mascella; le mani vagavano ovunque.

Ovunque: amavo farci l'amore con te. Ovunque. Ti stringevo e tu mi ammettevi che avevi bisogno di sentirmi. Che era il momento. E toglievi i tuoi abiti da bambina ingenua e vestivi un'arroganza a tratti ripugnante. Amavo ogni lato di te, prima e dopo essere affondato tra le tue gambe.

Te: il mio posto ideale. Quanto ti piaceva! Che con un tatto cauto e flebile tentavo di non farti piangere come tua consuetudine.

Consuetudine: pregarmi di non smettere nonostante le tue gote abbronzate fossero rigate da delle lacrime perfide ed impervie. Lacrime distruttrici. Parevano tagliare saldamente e terminare in delle cicatrici orride che assorbivi in silenzio.

Silenzio: tutto intorno a noi. Coi miei gemiti e i tuoi ansimi. «Non puoi uscire. Mi sento bene. Mi sento a casa. Mi sento giusta. Amami, Niall. Amami, ti scongiuro.» e io ci cadevo nel miscuglio delle tue lusinghe insidiose. Sorridevo ai tuoi bellissimi lineamenti marcati e al tuo corrucciare le labbra. Ed allora baciavo quelle goccioline salmastre e spingevo tediosamente il bacino nudo contro il tuo.

Premevo le mani alle tue cosce lisce e profumate, divaricate per me. E più scendevo, più sentivo di star culminando all'apice della beatitudine, più mi infatuavo di te e non sapevo come dirtelo!

Dirtelo: che t'amavo e non era soltanto un'insipida allegoria, la mia. Amavo vederti giocare con le bambole che trovavi tra i giochi di mia nipote. Amavo osservarti raccogliere fiori e metterli ai piedi dei senzatetto assieme ad un cappuccino ed un cornetto caldi. Amavo mentre alzavi le maniche delle tue felpe enormi fino ai gomiti e raccoglievi quelle onde castane ed incerte in una crocchia senza né capo né coda. Io sedevo all'angolo, con la tazza dei My Chemical Romance fra le mani, tra le scartoffie che ritenevi inappropriate. E amavo guardarti sporcarti il viso di qualsiasi diavoleria usassi per dipingere. Amavo scoparti contro quei cazzo di scaffali pieni della tua roba, della tua magnifica arte. Amavo i tuoi silenzi rarissimi e il tuo continuo parlare. Amavo quando aprivi Il Grande Gatsby e non ci capivi più un cazzo. Amavo quando insieme guardavamo Il Grande Gatsby e te ne stavi rannicchiata a piangere quando Jay lanciava quelle dannate camicie a quella oca giuliva che si era trovato. Amavo vederti entrare nelle librerie e uscire enormemente felice. Eri così felice con quei libri stretti fra le dita ed impiegavi quanto? Una notte per terminarli e la mattina amavo vederti sgambettare nella mia cucina ancora tutta sfaccendata e raccontarmi di Emma e Leòn (come finissi sempre a loro non ne ho la minima idea) e di quei due stronzi di Heathcliff e Catherine. Amavo sentirti ridere con quella voce stridula. Amavo i tuoi occhi rossicci di mattina. Amavo parlare con te quando avevi gli incubi verso le quattro e mi davi i calci per svegliarmi; «Eddai, giochiamo a venti domande.». Amavo vederti affacciare con un'espressione disgustata ogni qualvolta m'accendevo una canna. Amavo svegliarmi e amarti nelle coperte ancora impregnate della mia colonia, del tuo profumo d'olivo e il sudore della notte precedente. Amavo la mia collanina fra i tuoi seni miseri e amavo sentirti ridere per i miei peli.

Amavo ogni fattezza di te. Ti amavo se decidevi di rimanere, stronza di un'ingrata che non sei altro.

Altro: qualcosa che amerei percepire che non fosse questa maligna sensazione negativa che mi sconvolge le viscere. Me le ripiega a suo piacimento. E me le aggroviglia. E me le tira. Poi mangiucchia le budella. Poi sboccia un sentimento ancora più traviante: la desolazione. Una mancanza tanto concreta che mi pare di inciamparci se non guardo dove metto i piedi. E una mancanza tanto profonda, inspiegabile che è nauseante. Neppure mi fossi rinchiuso in tre mura e stessi gridando a squarciagola. Neppure se cercassi pietà. Non la voglio, la tua pietà. Puttana che non sei altro. Nemmeno la tua misera compassione.

Ficcatela a culo, già che ci sei.

Voglio che ritorni e che fai l'amore con me. Voglio che ti fai amare oggi che ti penso. Dannazione, sto qui a crogiolarmi nelle coperte sgualcite e da lavare e a stento me ne faccio qualche cosa del mio pessimo odore. È venuto Nick, l'altro giorno. Mi ha detto di farmi una doccia. Ma se ci entro, ci sei tu che gemi e piangi fra le mie braccia. Perché non ritorni, cogliona?

Fammi indovinare! Non ti sforzare con la nostalgia del cazzo che mi procuri. Che me ne faccio? Me la metto in tasca e continuo a stringere la tua felpa nel sonno? Che poi la sbatto contro la porta e bestemmio come un porco. Che ci faccio con la nostalgia che mi procuri? Me la mangio? Magari. Me la divoro e poi riaffiora nel mio stomaco di già dilaniato. Potevi restare, minchia.

Non potevo afferrare i tuoi baci, il tuo amore e ti diedi tutto. Stavi sbucciando un'arancia e mi sono alzato dal divano dove avevamo fatto l'amore come se fosse stata l'ultima volta. Come se non ti avessi più potuta abbracciare o respirare. E tu stavi lì a lamentarti del bruciore dovuto alle pellicine che t'ostinavi a tirare dalle dita e «Oh.» ti avevo detto. Tu avevi alzato la testa.

«Ora la getto nel cesso, quest'arancia.» avevo annuito. «Credo di amarti.»

«Bene.» non avevi vacillato, nel rispondere. Ti eri fermata, sì. Ti eri fermata per un bordello di tempo, ma amavo quando ti fermavi e ci ragionavi su. Ti piantavi su una gamba, ci appoggiavi tutto il tuo peso, e poi stringevi le labbra fra i denti. Avevi fatto cenno di sì e poi «Bene.» ma questo l'ho già scritto.

Avevo annuito di nuovo. «Bene?»

Avevi mangiato l'arancia, in silenzio, e non m'avevi neanche lasciato un'occhiata su cui rimuginare quando sei salita di sopra e sei scesa con Il Grande Gatsby fra le mani, i documenti, uno zainetto con due mutande di pizzo, due maglie pulite e un paio di jeans spiegazzati presi dall'asciugatrice. Avevi indossato quel cappotto sbrindellato e tutta sporca di arancia, vestita per stare in casa, magari ancora sudata dal round sul divano, mi eri venuta vicino per afferrare il tuo blocchetto dei disegni.

Io ero imperterrito, ti guardavo girovagare e afferrare una mela, poi una penna e «Hai un temperamatite?»

Feci di no. Che potevi cercarlo nel tuo enorme menefreghismo. «Non ci sta.» mi avevi risposto.

«Allora prova nella tua vagina. »

«L'avresti trovato prima. Lo comprerò.» scrollavi le spalle e «Non prenderla a male. Se non finisce adesso, dura per sempre. E per sempre è troppo tempo. Chi lo sorreggerebbe.»

«Baricco e Fitzgerald fanno cagare.» le avevo riferito, appoggiandomi al bancone dove stava ancora posato il coltello col piattino da poco utilizzati.

«Bene.»

«E ora dove vai?» m'aspettavo dicessi ovunque. O qualsiasi altro posto dove mi avrebbe attraversato la voglia di scriverti o cercarti.

E invece, «A 'fanculo.» e sei uscita dalla mia vita come una rondine va via in autunno. Senza preavviso, per sopravvivenza.


Dalla storia che non mi vedrete mai scrivere.
Lei e Niall e la cortesia.

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