scene ten - still asleep

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Come un eco la voce di quell'uomo ancora vagava tra le pareti del mio cervello, risuonando purtroppo quasi come una profezia, una previsione funesta.

G62 sembrava ancora immerso nell'obblio dell'inesistenza totale, nell'assenza e nella mancanza ben celata che provavo per lui.
L'unico che aveva il mio stesso sguardo dentro gli occhi in quella tana di lupi, adesso era spento e assente.
Il primo nemico che la mia mente potesse riconoscere, era lo stesso che mi aveva guardato sputare sangue e svenire dalla fame.
L'unico che, tra tutti quelli là dentro, mi aveva visto per come ero veramente.
Potevo provare ad ignorare tutto, ma era evidente che c'era qualcosa di più forte di una battaglia, che ci accomunava.
Eravamo hai lati opposti, ognuno barricato dietro la propria frontiera, la frontiera del mondo a cui appartenevamo: ma la verità era che nei momenti nella quale la guerra si calmava, e i proiettili smettevano di piovere letali, i miei e i suoi occhi si incontravano creando un legame forse fragile, sì, ma che ricollegava da lontano le due frontiere che ci dividevano.

Dopo tre giorni G62 era ancora spento: avevo chiesto a Greta aggiornamenti sulla situazione, ma mi aveva risposto che il signor Most stava ancora lavorando sul suo core, e la cosa peggiore era che, a quanto mi era stato detto, la crisi che aveva avuto era stata molto forte, come mai era successo; Greta mi aveva avvisato che c'era il rischio che, recuperando il core di G62 e rimettendolo in sesto, lui non sarebbe stato più se stesso (se così si può dire parlando di un umano artificiale), e avrebbe perso tutta la memoria contenuta dentro il suo core.
Avevo visto il signor Brandcore un paio di volte in quei giorni, e avevo subito notato il suo sguardo teso e preoccupato.
Ilish insisteva fosse per colpa della situazione di G62, e io gli davo ragione: se perdevano lui, era come fare immensi passi indietro, perdendo la loro modernità e la loro unicità.
Immaginai che il signor Most, invece, fosse una persona della quale il signor Brandcore si fidava poiché aveva tra le mani qualcosa di importantissimo.

Da quando avevo conosciuto Greta, avevo notato che non la smetteva di flirtare con me.
Non mi dava troppo fastidio, più che altro mi infastidiva che mi stava attaccata tutto il tempo, quasi senza lasciarmi respirare.
-È da tanto che non entra qui dentro un ragazzo come te.- mi disse mentre io prendevo il caffè in mensa. Ovviamente lei mi aveva seguito.
-Come me?
-Bello, misterioso, intelligente.- non arrossii alle sue lusinghe, non mi facevano effetto. Odiavo come cose di quel genere mi lascassero totalmente indifferente, odiavo la mia apatia verso quel tipo di cose che avrebbero riscaldato il cuore di qualunque essere umano. A volte pensavo di essere anche peggio di quegli mani artificiali. Quanto meno, loro erano stati programmati per non provare nulla. IO invece avrei dovuto, ma non lo facevo.
-Non esagerare, dai.
-Non esagero!- alzò la voce ridendo sotto i baffi.
La maggior parte delle volte in cui mi parlava, nemmeno riuscivo a concentrarmi per ascoltare.
A dirla tutta, questo accadeva con un po' tutte le persone con la quale venivo a contatto.
Forse Ilish era l'unico con la quale non avveniva, perchè con lui il mio cervello si sintonizzava nella modalità "lavoro": ascoltavo e archiviavo ogni cosa che mi diceva.
Proprio mentre pensavo a lui, lo vidi spuntare tra le persone che quella mattina affollavano la mensa.
-Frank, non puoi permetterti delle pause, dobbiamo lavorare, è un momento importante.- interruppe i soliloqui di Greta, che rimase quasi ferita dall'apparizione di Ilish. -forza, sali e vai a lavorare.- si allontanò in fretta e seguii i suoi passi. Andò a sedersi in un tavolo, di fronte il signor Most.
Non stava lavorando?
No, certo che no.
Era mattina, anche lui doveva riposarsi.
-Greta, devo andare a lavorare purtroppo. Ci vediamo in giro.- l'abbandonai in fretta, diretto verso l'uscita della mensa, senza aspettare una sua risposta.
I corridoi erano vuoti, camminavo solo mentre raggiungevo l'ascensore.
Afferrai il colletto della mia giacca, nella quale era attaccato il mini microfono, e sussurrai qualcosa: -Jorge, preparati ad aprire la porta dell'infermeria per me.- sapevo che era in ascolto, non poteva rispondermi ma sapevo che avrebbe fatto quello che gli aveva chiesto. Eravamo rimasti che sarebbe rimasto con la mappa dell'edificio costantemente piazzata davanti agli occhi in caso di bisogno. Sapeva l'ubicazione di ogni luogo, là dentro.
Ricordavo ancora la porta dell'infermeria, e quando arrivai davanti ad essa trovai il sensore accanto ad essa lampeggiare di verde, e uno spiraglio filtrare la luce interna dell'infermeria.
Sorrisi.
Jorge c'era.
Era la prima volta che gli chiedevo di fare qualcosa, e che quindi in modo indiretto avveniva un'interazione tra di noi, nonostante fossimo lontani.
Forza, sali e vai a lavorare.

encounters - frerardDove le storie prendono vita. Scoprilo ora