Black widow

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Mi sentii una completa nullità. Ero lì impalata con il guantone nella mano sinistra e ogni qualvolta che la pallina cadeva, il mio compito era quello di riposizionarla sul lanciatore. Forse non sentivo di essere inutile, lo ero. I miei compagni di classe giocavano, erano veloci e capaci, suonava il fischietto del professore e loro scattavano come saette da una base all'altra, facevano punto, mentre io no. Io partivo e fallivo. Facevo pena e quando sbagliavo sentivo il mondo crollarmi addosso, i miei compagni di squadra sospiravano scoraggiati, altri sbuffavano perché arrecavo solo danni e io invece, desideravo scomparire. I ragazzi dell'altra classe mi guardavano, come altri studenti dalle tribune e il professore, completamente deluso dalle mie scarse capacità. Io non sapevo cosa fare, mi rigiravo i pollici e chiedevo scusa, però non serviva perché ormai avevo condotto la squadra alla sconfitta. Ero inutile e anche moscia, perché non replicavo quando mi mettevano ansia e mi guardavano in maniera altezzosa, come per dire 'hai fatto schifo'. Glielo leggevo negli occhi, le vedevo le persone che ridevano di me e che mi ferivano con una sola occhiata gelida. Però non era colpa mia, non potevano pretendere che una così stupida come me potesse dare più del dovuto, potesse brillare come loro. Nessuno lo capiva, forse nemmeno io.

Più tardi uscii da scuola e sconsolata come sempre m'imbattei in un ragazzo, «cos'è quella faccia?» chiese. Io mi accigliai, non mi era mai capitato che qualcuno mi prendesse in considerazione, soprattutto se non mi aveva mai vista. Era strano, perciò mi spaventai un pochino. «Scusa?» feci a mia volta con una nota di curiosità. Lui ridacchiò, era un ragazzo tutto sommato non male, moro, lineamenti caucasici, occhi verdi e labbra rosse. Non c'era nulla da ridere però.
«Sei triste?» domandò. Mi illuminai perché aveva notato il mio sconforto, forse era finalmente arrivato l'angelo che mi avrebbe compresa. Annuii fermamente, aspettandomi un altro segno di comprensione da parte sua. «Ho un rimedio alla tristezza» disse sorridendomi e spegnendo il ghigno che aveva prima. Ora era più angelico, risposi a quella sua consolazione. Feci ancora sì con la testa e dalla sua tasca tirò fuori una piccolissima bustina di plastica, contenete una sostanza bianca. Aggrottai le sopracciglia e lo guardai stranita, cosa significava?
«Questa, potrebbe migliorarti le giornate del 99%» tentò di spiegarmi, però essendo un po' stupida continuavo a non capire.
«La paghi duecento dollari e dai una svolta alla tua vita» aggiunse. Avevo dei soldi da parte, quindi potevo permettermela.
«Cos'è?» chiesi prima di affrettarmi, «polvere magica» affermò lui e mi convinse, avevo bisogno di una distrazione, di un qualcosa che effettivamente migliorasse le mie giornate, e che non mi facesse sentire una schifezza ogni santo minuto.
I miei occhi brillarono, avevo trovato il rimedio che inconsapevolmente mi avrebbe rovinato l'esistenza.






4 years later

«Bethany! Di nuovo qui?». Mi voltai e guardai l'ispettore Brown con la sua solita e ridicola pipa in mano, alzai gli occhi al cielo e attaccai la gomma da masticare sotto al tavolo. Feci uno sbuffo seccato, e giocherellai con la penna del mingherlino che stava raccogliendo le mie testimonianze. «A quanto pare» tirai avanti il discorso seppur non m'importasse granché.

«Cos'hai fatto questa volta?», «ho ammazzato mia madre, non la smetteva di brontolare». Strabuzzò gli occhi e fece cadere la pipa, risi di gusto. «Avanti Brown, scherzavo!» finii di canzonarlo. Scosse la testa e recuperò il suo oggetto per terra, «ah ragazzina, un giorno di questi mi manderai in ospedale», «sarebbe una grande soddisfazione» feci. Si avvicinò al tavolo dell'interrogatorio e sbadigliai senza coprirmi la bocca, lesse il foglio. «Marijuana?». Applaudii, «almeno sai leggere».

«Bethany non cambierai mai» mi rimproverò, me lo dicevano anche i miei genitori.

«Un altra settimana in gattabuia?» domandai troncando il suo discorso, dopotutto era quello che mi importava, «deduco di sì». Imprecai, non potevo passare dei giorni in carcere per aver fumato una sostanza illegale, se era nociva alla salute allora doveva riguardare solo ed esclusivamente me, rischiavo io la vita, non gli altri, quindi era un problema mio.

«Voi sbirri siete davvero delle cozze» parlottai, «è lo stato» precisò, «stato, sbirri, che differenza c'è? Il cazzo lo rompete lo stesso». Mi stiracchiai, «addirittura le manette?» risi, «siete messi davvero male» aggiunsi poi sogghignando. E il resto fu la solita storia, la polizia avvisò i miei genitori che mi portarono il necessario per trascorrere la settimana in gattabuia. Mia madre mi sputò in faccia, mentre mio padre ripeté la solita filastrocca «non sei più mia figlia, ma una criminale», non mi faceva male, ne ero abituata. Ero una criminale, una criminale che aveva cominciato a drogarsi proprio a causa del menefreghismo dei suoi genitori e della pressione scolastica, mi sentivo sola e nella droga avevo trovato una salvezza, la mia salvezza e ne andavo fiera. La droga era riuscita a compensare le mancanze causatemi da mamma e papà, ignorando il fatto che io mi sentissi una busta di lerciume ogni giorno. Fui portata in carcere, la solita divisa arancione per i detenuti e una stanza piccola e angusta.

Un letto scomodo, un tavolo con una sedia e un bagno senza muro, il lavandino e il water erano messi a nudo. Fortunatamente non condividevo la stanza con nessuno, non mi sarebbe piaciuto e non mi si addiceva, non ero brava nell'altruismo e nella divisione dei beni, se una cosa era mia, allora era mia e basta, mia e di nessun altro essere.

I giorni passarono e nessuno venne mai a farmi visita, 'quale triste verità' pensai ridacchiando, sola stavo meglio, molto meglio. Avevo conoscenze dentro al carcere e anche fuori, quindi grazie al cellulare del custode che avevo spudoratamente sedotto ero riuscita a farmi mandare un regalino nascosto proprio dentro il pane della cena. Ero a corto di soldi, avrei pagato Max più tardi; ero consapevole di sembrare una squattrinata combinaguai, però il mio paparino aveva i soldi, quindi rubargli un gruzzoletto sarebbe stato facile e immediato. Arrivò la cena, semolino e pane, non avevo voglia di assaggiarlo poiché l'unica cosa di cui ero realmente affamata era la cocaina, due pastiglie bianche come la mia pelle.

Inalazione tramite acqua del rubinetto e un sacco di emozioni e stati d'animo nuovi, che mi tele trasportavano in un altro mondo, in una dimensione tridimensionale dove tutto era più bello e colorato, dove la protagonista ero io.





Quarto giorno e una noia mortale, che mi consumava da capo a piedi. Venni a sapere durante l'ora della colazione, che si svolgeva in una sala comune, di un'organizzazione interna al carcere, dei ragazzi desideravano evadere e io mi sarei aggiunta a loro. Il personale e la polizia qui non erano molto capaci e intelligenti, scappare sarebbe stato uno scherzetto. Ringraziai il cielo.

«Luke» urlai, «vieni qui» continuai poi alla porta che fu aperta in tre secondi. «Bethany, cosa ti serve?» chiese poi lui, un lercio ragazzone di trent'anni biondo con occhi azzurri e occhiaie rosse. «Posso uscire? Voglio solo vedere cosa ci sarà per cena» chiesi utilizzando una scusa piuttosto ridicola, alzò gli occhi al cielo, «hai dieci minuti, dieci fottutissimi minuti» puntualizzó. Annuii e uscii, non capivo bene cos'avrei dovuto fare per scappare via, ma avevo da tramite Elena, una sgualdrina con cui avevo stretto un rapporto e che conosceva il gruppo che sarebbe evaso. Utilizzai lei come mezzo di conoscenza e a giudicare dalle sue parole, sarebbe passata a prendermi domani mattina, saremmo usciti da qua all'alba, i poliziotti erano assopiti nonostante fossero abituati al loro turno notturno, saremmo stai più agili. Attesi con ansia quel momento e quando arrivò, il piano ebbe esecuzione, ci riuscimmo, scappammo dal carcere e contenti ci dividemmo per sempre, le nostre strade intrecciate si separarono e io corsi verso quella che era casa mia, una mossa stupida, ma necessitavo di soldi.

Avevo addosso quella ridicola divisa arancione, la strada era deserta ma sarei stata immediatamente riconosciuta. Imprecai nel panico di poter essere ripescata e arrivai a casa. Presi le chiavi che solitamente nascondevo dentro una piantina del giardino ed entrai. Mi catapultai in camera mia, non avevo il tempo di prendere vestiti e fare la valigia. Cercai nel cofanetto le mie pillole di ecstasy e eroina, ma non le trovai, segno che prima di imprigionarmi la polizia mi perquisì la casa sottraendomi tutte le risorse. Imprecai nuovamente in tutte le lingue che conoscevo.

Mi cambiai, indossai dei pantaloncini inguinali di jeans chiari, un maglione bordeaux e le converse del medesimo colore, mi sistemai il viso. Mi truccai un po' e coprii le occhiaie per dare meno all'occhio una volta fuori, correttore, mascara, matita e solito ombretto nero. Corsi alla cassaforte nello studio di papà e presi tutto ciò che aveva, un rolex e centinaia di dollari, misi tutto in una borsa pratica e presi qualcosa da mangiare. Mi fiondai fuori prima di aver preso le sigarette di mamma, sentii un rumore ed ebbi paura che qualcuno si fosse svegliato. Proseguii in una corsa disperata lungo tutto il viale, presi i mezzi per arrivare alla stazione e mi posi il problema dei documenti, non potevo partire all'estero. Inoltre avrei avuto problemi ad orientarmi, potevo dormire in hotel, un'ostello o anche sotto un ponte, ma come avrei potuto sopravvivere più avanti, quando i soldi mi sarebbero finiti? Poi era probabile che tutti avessero avuto notizia dell'evasione e che gli sbirri fossero già sulle mie tracce. Non mi sbagliai, udii la sirena poliziesca, «cazzo» urlai prendendomi una ciocca di capelli tra le mani, «vaffanculo».

Scattai dentro la stazione, passai dal sottopassaggio e attraversai i binari senza paura che un treno potesse mettermi sotto.

«È lì!» sentii gridadre, grondante di fifarella continuai a correre disperata. Scavalcai la rete che divideva i binari del treno da un piccolo bosco e proseguii. Caddi numerose volte, avevo il fiatone e sentivo il mio passo rallentare. Ero stanca, mi graffiai con qualche rovo e uscii dal boschetto, non sapevo bene dove fossi. «Fermala dai!» urlò nuovamente una voce femminile raspante, «corri!» aggiunse. Accelerai e riuscii a tenere testa a chiunque mi stesse alle calcagna per diversi minuti, svoltai in una stradina a destra ma piombai in un fottutissimo vicolo cieco.

«Sei finita» disse la voce di un ragazzo, mi voltai con le spalle al muro. Non aveva la divisa poliziesca, anzi, indossava un normalissimo outfit, jeans neri, maglietta a maniche corte bianca e sneakers color oro. Impugnava tra le mani una pistola color pece che mi mise il terrore. Alzai le mani, «chi cazzo sei?» strillai.

«Poliziotto Bieber» rispose. Inarcai un sopracciglio, era chiaro che avesse la mia età, sui vent'anni anni. Quindi come diamine faceva ad essere già un agente poliziesco? Ero impanicata e non capivo bene la situazione.

«Non dire stronzate» feci io, «quali stronzate, si torna in carcere, il posto dove la gente drogata come te passa il resto della sua miserabile vita». Si avvicinò a me e mi inchiodò nuovamente al muro, il mio seno era incollato al suo petto e percepivo l'evidente muscolatura dei pettorali. Avevo il suo respiro sulle mie labbra e il suo bacino era contro il mio. Lo guardai meglio, era dannatamente bello. Capelli quasi biondi, occhi color miele le cui iridi erano frastagliate da sfumature oro e gradazioni marroni, naso della misura perfetta, carnagione leggermente abbronzata e labbra carnose, rosse e invitanti. Era tatuato, cosa che lo rendeva ancora più attraente. Non era la situazione giusta per osservarlo e pensare a quanto fosse sexy, dato che lo stavo letteralmente odiando. Si avvicinò ancora di più a me e fui convinta che riuscisse a percepire la mia palpitazione a mille, stavo morendo. Puntò la punta della pistola in metallo, ghiacciata sulla mia tempia.

«3, 2, 1» cominciò a fare la conta, tremai contro di lui, se non fosse per il suo corpo sarei crollata a terra. Ebbi paura di morire, nonostante la mia esperienza in carcere non mi era mai successo di dover avere a che fare con armi da fuoco e inseguimenti.

«Boom» sussurrò poi sfiorandomi le labbra con le sue, mentre dallo spavento cominciai a perdere conoscenza, chiusi gli occhi e lui ridacchiò. Scivolai contro il muro, sollevata che non mi avesse uccisa, ma consapevole che ormai la mia sorte fosse scritta su un libro. Sentii altri passi arrivare, «allora Justin, l'hai presa?» chiese una voce maschile, «sì e l'ho anche spaventata» rispose lui sogghignando, mentre sentivo mancare e andare via.

«Quante volte ti ho detto di non usare la pistola e di non spaventare la gente che inseguiamo?» lo rimproverò l'interlocutore, «è divertente». In quell'attimo andai via con il respiro affannato e persi la consapevolezza del mondo dinamico, un mondo di merda che mi aveva regalato solo ed esclusivamente sofferenze. 


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Hey,

Sono Sarah. Ho cominciato a scrivere questa storia tempo fa e ho deciso di pubblicarla su wattpad sotto consiglio di alcuni lettori. Fatemi sapere nei commenti se vi piace e se ne vale la pena continuare a pubblicarla. Più avanti curerò più dettagli possibili, non so ancora usare wattpad purtroppo.

S

xx

Black WidowWhere stories live. Discover now