He's boring me to death- Cap 1

18 2 0
                                    


«Bethany? Perché non vieni a giocare?», «ah aspetta lo so, perché non lo sai fare!» disse uno dei soliti ragazzini la cui immagine del viso era ormai sfumata. «Non è vero» risposi ridendo, cercando di buttarla sul ridere mentre sentivo una parte dentro di me affondare, sprofondare nell'abisso dei sensi d'inferiorità.
«Anche se Bethany fa schifo a giocare, cercate di passarle la palla» tuonò il professore ridendo sotto i baffi, trascinando con sé tutta la classe, sorrisi per non piangere. «Bethany sei davvero un'incapace» aggiunse poi mia madre sbucando dalla porta scolastica con mio padre, con tanto di risolini e vani intrattenimenti di risate. Cominciò un coro, «incapace, incapace, incapace» che andava all'infinito, e fu lì che crollai per davvero cominciando un dilaniante pianto, «non è vero» protestai coprendomi il viso con le mani, non ci riuscivo, non era colpa mia.


Compresi che si trattasse di un sogno, uno dei soliti. La mia guancia era bagnata lo stesso da quella che sembrava una pura ed innocente lacrima, ma quando si trattava di me nulla poteva essere puro ed innocente. Spalancai gli occhi con difficoltà e mi tastai il viso, asciugandomelo con amarezza. Mi ero promessa di non versare più nessuna lacrima per quello che era il passato, un mucchio di debolezze che avevo ormai sepolto insieme alla mia vera identità. «Cazzo» dissi tirando sù col naso, ero parecchio indolenzita e mi ricordai della disperata corsa verso la libertà e dell'inseguimento. Era sicuro che fossi ritornata in gattabuia, che rottura di maroni.
«Ci siamo svegliati?» chiese qualcuno infondo alla stanza totalmente bianca che mi ricordava le camere dell'ospedale. Alzai di poco il collo e vidi appoggiati al muro quello stronzo del 'ehi, sono il poliziotto Bieber, piccola' e un'altra donna, vestita da poliziotta e lasciatemi dire che la divisa non le donava per niente al mondo, sembrava un salame stretto in una cordicella. Sbuffai, «non conoscete la parola privacy?». «Hai ancora il coraggio di parlare?» chiese 'Justin'.
«Anche il salame al tuo fianco ha il coraggio di andare in giro così, ma io le dico qualcosa? No, prendi esempio da me» replicai alzando gli occhi al cielo, irritata e leggermente imbarazzata per la situazione che mi vide protagonista prima. Io, Bethany Julie Snike messa alle strette da un pivello qualsiasi, non capitava più da quattro anni ormai.
«Ehi ragazzina, vuoi che ti ricordi in che posizione sei adesso? Chi è che detta ordini e chi deve sottostare?» fece il salame, feci un verso di noia.
«Patetica, tu e il tuo amico» commentai tornando con la testa sul cuscino.
«Sei a corto di droga? O hai semplicemente il ciclo? Oppure sei in astinenza da un qualche rapporto sessuale, dato che una come te non se la sbatterebbe nemmeno un barbone?» riprese a parlare Bieber, provocando in me una serie di emozioni in contrasto tra loro, tra le quali però primeggiavano rabbia e ira.
«Ti conviene tacere» alzai la voce di un'ottava, «altrimenti?», «altrimenti diventano cavoli tuoi biondino».
«Oh che paura, vorrei ricordati che contro uno come me non puoi nulla». Tornai con il busto eretto e scesi dal letto dondolandomi un po' dallo squilibrio e da un leggero capogiro, «smettila di darti tante arie sbirro in versione tascabile». Ridacchiò assieme a quella stupida mucca di fianco a lui, in quel momento entrò l'ispettore Brown.
«Bethany, cosa ti salta in mente? Sciocca di una peste» mi rimproverò, tipico; costava tanto chiedere con gentilezza e premura 'Bethany! Come stai?', no era meglio 'Bethany stupida, cos'hai fatto?', 'idiota combini solo guai' ecc... Non c'era da meravigliarsi, poi le persone si lamentavano se mi comportavo male. Le loro azioni si ripercuotevano sul mio essere così spettrale e buia. Se fossi stata trattata con un po' più di cortesia, forse a quest'ora sarei a scuola a studiare e nel pomeriggio sarei uscita assieme ai miei amichetti del cuore, magari avremmo preso un gelato chiacchierando dei ragazzi, se trovavamo qualcuno particolarmente carino o qualcuno che ci suscitava trambusti allo stomaco. Chissà com'era l'amore.
«Brown, da quando avete cominciato ad assumere bambini? Siete a corto di persone professionali?» chiesi ancora scossa dai taglienti insulti che mi rivolse il bellissimo, ma estremamente vanitoso Bieber.
«Stai parlando di Justin?» domandò, «chicchessia» feci io.
«Si da il caso che tu ti stia riferendo a Justin Drew Bieber, la stella di tutti noi in città. É un agente speciale, sta ancora facendo esperienze. È una sorta di apprendista, ha vent'anni e sta ancora studiando all'università però è un grande!» rispose sorridendo al soggetto di cui stava parlando.
«Ora capisco perché sei vanitoso da fare schifo, tutti questi idioti non fanno altro che gasarti» dissi poi riferendomi a lui.
«Qualcosa mi dice che tu invece in vita tua non sia mai stata gasata. Soffri di complessi di inferiorità?» affermò di replica, incredibile, avevo trovato l'essere in grado di farmi saltare i nervi per aria in meno di tre secondi, pane per i miei denti, e pensare che nonostante il temperamento un po' burrascoso, ero sempre stata una ragazzina placida e mite.
«Sei uno stronzo assurdo» sputai velenosa, «ehi amico, non hai un po' di eroina in tasca? Qualcuno qui ne ha urgente bisogno» esclamò provocando una risata generale, io mi chiedevo cosa ci fosse da ridere, dannazione.
«Perché ti comporti così?» domandai poi abbassando i muri che ero solita erigere con tutti, però lui mi rendeva vulnerabile, stava riuscendo a tenermi testa, odiavo essere debole.
«Perché la gente come te se lo merita» proferì interrompendo il silenzio che la mia domanda aveva creato.
«Cosa sai di me?», «il fatto che tu sia scappata da un carcere, che abbia abbindolato il custode che ti sorvegliava e che ti droghi, mi basta e mi avanza. È così che funziona, i criminali vanno trattati in questa maniera».
«Sei pieno di pregiudizi» dissi affibbiandogli il titolo di 'persona superficiale' ciò che dopotutto mi stava dando l'impressione di essere. «Dovrebbero tagliarti la lingua» m'insultò nuovamente.
«Bethany, se stai meglio dobbiamo riportarti in cella e dopo la tua bravata, il soggiorno prolungherà» se ne uscì l'ispettore Brown, l'unica fortuna che avevo era quella di non andare sotto un processo vero e proprio, altrimenti sarebbero stati guai.
«Dove volevi andare?» mi fu chiesto, «a rifarmi una vita».
«E non potevi aspettare gli altri tre giorni che mancavano?», «evidentemente no».
«Quindi se non fosse stato per Justin a quest'ora saresti stata in Texas?» finì il noioso interrogatorio mr. Brown. Io annuii, come per fargli capire che stava dicendo un mucchio di scemenze a cui non mi importava ribattere.
«Parli come se questo mini sbirro mi avesse salvato la vita, che si fotta» dissi guardandolo carica di rancore, ricordai il modo in cui mi aveva stanata, avvicinandosi a distanza azzerata e puntandomi la pistola alla tempia, ero persino svenuta dallo spavento, che figuraccia. Lui rise e uscì dalla stanza assieme a Mery il salame e mister Brown. Entrò un dottore che si assicurò della mia salute, mi fece diversi controlli, era molto manesco e non faceva altro che toccarmi.
Anche quando mi ero spogliata, allungava le mani in posti dove non doveva.
«Il controllo prevede che lei mi palpi le tette?» gli domandai.
Si sistemò gli occhiali disposti sul viso allungato e mi fulminò con lo sguardo, era inquietante. Poi ero io quella strana.
Scrisse un certificato medico e uscì dalla stanza, il suo compito era terminato. Un comportamento davvero singolare; Ebbi paura che più avanti potesse andare oltre casomai avessi dovuto compiere altre visite, ed ero sicura che in futuro mi sarei ritrovata dal dottore molteplici volte.
Fui nuovamente riportata in cella e notai con dispiacere che me l'avessero cambiata, era più grande della precedente ma come letto avevo a disposizione di una fottutissima panchina e un gabinetto messo a nudo con a fianco un rubinetto arrugginito. L'unico comfort di cui potevo godere era la finestra, severamente serrata, sigillata peggio di un sarcofago egiziano. Tutto sommato me l'ero meritato. Cominciai a condannarmi per l'azione commessa e per tutti i singoli comportamenti attuati da quando ero arrivata in questo carcere. Mi ero creduta superiore e ora ne stavo pagando le conseguenze. Una punizione decisamente meritata. Per mia fortuna non condividevo quel buco di lerciume con nessuno.
Avvennero le ordinarie procedure: abito arancione e semolino con broccoli. Mi ritrovai costretta a mangiare, il mio corpo era stremato e percepivo le forze mancarmi. Svuotando la mente, cominciai a prepararmi per la doccia che aveva luogo nei bagni comuni.


Passarono dei giorni e più stavo in quella stanza, più mi sentivo impazzire, aggiungendo anche il fatto che ero a corto di droga e sigarette, quindi la situazione stava degenerando. Mi sedetti per terra e mi portai le ginocchia al petto, abbassai il viso stanco e cadaverico e cominciai a dondolarmi perché percepivo a livello fisico, emotivo e spirituale una mancanza, la mia astinenza, era una lotta.
Avevo una sensazione sgradevole addosso, respiravo con difficoltà e il mio stomaco era in sobbuglio. Inoltre avevo una voragine, un vuoto dentro al petto, avevo bisogno di inalare qualcosa o di fumare, ne sentivo la necessità perché la mia testa sarebbe scoppiata da lì a pochi minuti. Boccheggiai e annaspai verso illusioni percettive quando concretizzai il mio grave deperimento fisico, sentivo consunzione e logoramento. Prostrazione e instabilità psichica mi portarono all'esaurimento finale.
«No, non subito» dissi tra una sudata fredda e l'altra, tra un respiro perso e un'altro recuperato a stento. La stanza andò a rimpicciolirsi compiendo un movimento rotatorio, strillai.
«AIUTO», piagnucolai stringendomi il tessuto della vestaglia che sentivo andarmi stretta, era ufficiale: stavo soffocando. Urlai nuovamente e mi fiondai sulla porta, bussando come se non ci fosse un domani. Nulla, non mi udiva nessuno.
«C'È QUALCUNO?» chiesi in un grido disperato, volevo respirare aria, vedere il cielo e assumere qualcosa, solo della cannabis, mi sarebbe bastata quella e basta. Piansi per davvero, respirai profondamente per controbilanciare e per neutralizzare la mancanza, la penuria che avevo di drogarmi, volevo, anzi dovevo drogarmi, io avevo bisogno di droga.
«Avanti...» gemetti con voce sommessa, sottile e spezzata, «vi prego» sussurrai nuovamente in un bisbiglio inudibile, mi sdraiai a terra con le lacrime agli occhi, frignando rumorosamente e Dio quanto mi facevo schifo in quell'istante.
Chiusi gli occhi e la lacrimazione inarrestabile mi bagnò tutto il viso, che scommisi fosse bianco, pallido.
Sentii la porta aprirsi e una presenza mi fu vicina in meno di tre secondi, fui osservata con cura. Non osavo aprire gli occhi, mi sentivo uno straccio, ero un sacchetto dell'immondizia completamente da buttare, lercia da schifare il lerciume stesso.
«Merda» disse e lo riconobbi subito, da una parte c'era il suo odore aulente e balsamico e dall'altra la voce, autoritaria e in un certo senso rassicurante, melodiosa avrei osato dire. In una condizione di parziale sanità avrei rifiutato il suo aiuto, ma in quel momento mi trovavo in una situazione agghiacciante, avevo perso il controllo di me stessa e in quel momento ebbi veramente paura della forza dell'astinenza, smettere di drogarmi avrebbe significato dare inizio ad una guerra, che sicuramente mi avrebbe vista dalla parte della sconfitta. Era inutile tentare, lei era forte, lei era riuscita a salvarmi dal mondo ma non da se stessa, lei mi aveva assorbita in un nucleo di emozioni e sensazioni che distavano dal mondo reale. La droga mi aveva liberata e io dovevo esserle fedele, non potevo rompere la promessa. Chi c'era quando tutti mi avevano voltato le spalle? Lei.
Chi mi dava soddisfazioni quando avevo smesso di sentirmi viva? Lei. Chi mi diede altro per cui sognare? Lei.
«Mi senti?» domandò spostandomi i capelli dal viso e facendomi aria con la mano, «ne ho bisogno» dissi scoppiando in un ennesimo e fragoroso pianto. «Ti prego» lo supplicai poi. Lo sentii sbuffare e imprecare.
Mi accarezzò il viso e si alzò dal terreno ghiacciato, corse verso la finestra, sentii un rumore di chiavi e come avevo intuito aprii le persiane spettrali tipiche di una galera. Aprii gli occhi leggermente, non vedevo nulla in quanto la mia vista era appannata, talmente sfocata che riuscivo a malapena a distinguere gli oggetti dalle loro ombre.
Si avvicinò nuovamente a me e mi alzò dal terreno, fui presa di peso e poggiata sulla panchina. Mi ci sistemò in modo da far riposare e distendere tutto il corpo indolenzito e mi alzò le gambe, per far tornare il sangue alla testa dato che mi stavo sentendo svenire nuovamente. Non ero mai stata soggetta a debolezze fisiche, era più un gioco mentale, era tutto frutto della mia mente.
Respiravo a stento, «stai tranquilla» m'intimò avvicinandosi al mio viso, il resto fu un continuo di fresche carezze, ma fu un bacio sulla guancia a scuotermi del tutto, interno ed esterno, anima e corpo.
«Non pensare a quanto ti manchi, ce la puoi fare», «pensa a ciò che potrai fare una volta qui fuori» aggiunse.
Lo feci, chiusi le palpebre e immaginai me stessa prendere la mia vita in mano e portarla un po' più in alto, «rilassati».
Obbedivo, era una serie di azioni meccaniche, l'apprendista poliziotto Justin Drew Bieber dettava e io eseguivo.
Si sedette sulla panchina e posizionò la mia testa sul suo grembo, «shhh» sussurrò.
Piano piano sovrastai quel trambusto di conflitti che sentivo dentro di me, ero equilibrata e avvertii una voglia di dormire. Il suo tatto, la sua voce e il suo profumo mi aiutavano, mi sentivo bene. Prima di addormentarmi del tutto lo guardai un'ultima volta e mi parve angelico, era bellissimo.




Mi risvegliai nuovamente nella stanza medica e mi ritrovai mezza nuda sotto le coperte, indossavo solo l'intimo. Avevo una flebo attaccata al braccio destro e una mascherina che facilitava il respiro sul viso.
Avevo un amaro sapore in bocca e mugugnai.
«Ci ritroviamo qua a quanto pare» disse l'ispettore Brown, mi chiesi perché per una volta non potevo svegliarmi da sola.
«Non ha una famiglia a casa lei?» domandai con una nota di veleno, «sì, ma prima della famiglia viene il lavoro. È la regola delle regole». «Posso capire perché sono sotto osservazione?» posi il quesito che mi tormentava da giorni.
«Sei appena entrata, sei scappata e ieri sembra che tu abbia avuto un malore fisico, segno che non è da molto che hai assunto una nuova sostanza. Devi essere perquisita di nuovo e devi essere interrogata anche perché si è riscoperto un traffico illegale di droga dentro il cibo della mensa. Sai spiegarlo?» in quell'istante deglutii pesantemente.
«Mollami, hai detto che ho avuto un malore, quindi perché disturbarmi? Lasciami riposare, rimanda l'interrogatorio a dopo».
«Torni in cella sta sera, sei al pari di tutti gli altri detenuti, chiaro?» tuonò in un rimprovero secco, mi sentii alle strette anche perché non avevo mai visto l'ispettore Brown così.
In quell'istante entrò il poliziotto Bieber con il caffè in mano, che lo pose gentilmente al mio interlocutore con tanto di sorriso.
«Si è svegliata la principessa, vedi di non fare l'abitudine di svegliarti sempre qui» fece disprezzante.
Mi sorse un dubbio, quel che successe prima, era frutto della mia immaginazione o era la verità?
«Quindi adesso torni a fare lo stronzo» esclamai in un flebile soffio, «Mery il salame non è con te?» aggiunsi. Lo feci ridere e stranamente questo procurò in me una soddisfazione.
«No, non è con me» rispose senza smettere di ridere.
«Grazie» dissi poi, mr Brown aggrottò le sopracciglia e Bieber fece lo stesso, «di cosa?».
«Di prima!», «prima quando?» domandò ancora. Ebbi paura di ricevere la risposta al mio dubbio.
«Fai lo smemorino, non ti si addice per niente poliziotto da quattro soldi», «sei tu la smemorina, hai sniffato la polvere?».
Ed ecco che i miei poveri nervi scoppiarono nuovamente, «la vuoi piantare?».
«Sei tu che continui a delirare, grazie di cosa?» disse prendendo un sorso del caffè, «mi stai dicendo che prima non sei stato tu?» chiesi con il cuore in mano, «ehm... No».
Ridacchiai malinconicamente, ero una fottuta drogata di strada, però sapevo quando qualcuno mentiva o quando bleffava.
«Fuori dalla mia stanza» gridai. Brown uscì alzando le mani, Justin lo seguì con un sorriso sghembo in viso, mi fece un occhiolino e se ne andò. Mi stava facendo impazzire e questa era solo la terza volta che lo vedevo.  

Bethany Snike

Justin Bieber  

Oops! This image does not follow our content guidelines. To continue publishing, please remove it or upload a different image.

Justin Bieber  

Justin Bieber  

Oops! This image does not follow our content guidelines. To continue publishing, please remove it or upload a different image.
Black WidowWhere stories live. Discover now