Always next to me -Cap 2

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Ennesima partita di baseball e un'ansia sempre più crescente. «Snike tieniti pronta» urlò il prof, tutti gli sguardi erano puntati su di me, partì il fischio. Colpii la pallina, mollai la mazza a terra e corsi verso la prima base con il fiato mozzato. I miei compagni di classe m'incitarono ad andare avanti e corsi per la seconda base, poi per la terza e finalmente alla quarta avrei fatto punto. L'avversario raccolse la pallina e m'inseguì, lui era più veloce ed io ero ad un passo dalla vittoria, però purtroppo mi prese. Il professore scosse la testa e la mia squadra imprecò contro la mia scarsità fisica. «Bethany ti faccio eliminare dalla squadra» mi sgridò il professore, il cuore prese a palpitarmi e deglutii con gli occhi bassi e fronte vergognosa. Non riuscivo a sostenere tutta quella pressione così mi cambiai subito e tornai a casa in anticipo, sperai di potermi sfogare con i miei genitori, ed invece quest'ultimi erano assenti. Non c'era nessuno e non potevo contare su nessuno, la mia vita era una sequenza di fallimenti e ad affiancarmi avevo solo la consapevolezza che un giorno sarei potuta cambiare.






«Alla faccia di quei beoti» ridacchiai giocherellando con una pallina di gomma, lanciandola sul muro della cella e riprendendomela con un movimento secco e deciso, proprio come me: esauriente e determinata. Passai la sera così, pensando anche a quando il poliziotto Bieber mi aveva aiutata con l'astinenza, e tutte le volte che rammentavo quei suoi occhi penetranti, mi convincevo sempre di più di non aver sognato. Sospirai guardando la nuova camera d'albergo a cinque stelle -notare l'ironia- che quei bastardi degli sbirri mi avevano assegnato. Sembrava quasi che volessero disorientarmi, in nove giorni avevo cambiato tre bugigattoli, tutti lugubri e angusti. Fortunatamente mi adattavo velocemente.
La porta della cella si aprì scricchiolando, producendo un rumore fastidioso quasi quanto quello delle unghie affilate su una lavagna. Un poliziotto minuto e dall'aria competente mi scrutò sotto le lenti dei suoi occhiali, «sei stata reclamata per l'interrogatorio previsto ieri sera, e non ti puoi opporre perché secondo l'articolo-», «taglia corto quattr'occhi».
Mi alzai di malavoglia dalla panchina con la schiena dolorante, «non potreste farmi avere un letto più comodo?» protestai massaggiandomi i dorsali, mi fulminò con lo sguardo. Risi, «ti sei offeso?». Non rispose, «stai attenta a come parli detenuta cinquecentocinque, non conosci ancora il posto e il carcere dove sei finita». In quel suo detto misterioso colsi una serie di sfumature inquietanti, che mi fecero capire di dover tacere e di dovermi guardare le spalle. Dal dottore manesco al poliziotto minaccioso.
Sfilò dalla cinta le manette luccicanti e chiuse la cella. Poi mi prese poco delicatamente dall'avambraccio e cominciò a camminare strattonandomi di volta in volta. Attraversammo il corridoio e prestando attenzione, mi accorsi solo in quel momento della presenza di numerose celle in cui risiedevano diversi detenuti i cui visi non mi piacquero per niente.
«Perché sono stata inserita in quest'ala del carcere?» domandai intimorita dagli sguardi che mi lanciavano i reclusi, «è stata una decisione del consiglio supremo», «consiglio supremo? Cosa cazzo siete, una setta satanica?» ero accigliata.
«Per consiglio supremo intendo la commissione di massimi ispettori a cui sottostiamo tutti qui dentro», «bella gerarchia» commentai, «e perché hanno deciso di mandarmi qui?». «Perché sei un soggetto pericoloso, qui ci sono tutti i criminali più feroci che hanno tentato di scappare». Non dissi altro e mandai giù un opprimente groppo di saliva.
«L'interrogatorio si svolgerà in caserma» disse, «che palle» borbottai. Improvvisamente si fermò e mi spinse barbaramente, andai a sbattere contro il muro del corridoio. «Controlla il tuo linguaggio con me», strinsi le palpebre per attenuare il dolore che mi scosse il corpo indolenzito. «Ma sei impazzito? Lurido bastardo» gridai. Non mi resi conto dell'accaduto vero e proprio finché non fui schiaffeggiata. Nonostante la sua corporatura fosse macilenta, la forza non gli mancava di sicuro.
L'impatto della sua mano fu rude, boccheggiai spaventata e per poco non caddi. Tuttavia il rancore per quella sua azione era maggiore del panico, così lo insultai «smilzo figlio di buona madre, credi di potermi-» fui interrotta da un ennesimo colpo, sulla stessa guancia e con la stessa potenza, l'unica differenza era che più che schiaffo quello sembrava essere un pugno vero e proprio. Questa volta crollai al suolo, mentre lo zigomo rimbombava di acutissima dolenza. Tardai a giungerci, ma arrivai ad ipotizzare che il carcere in cui ero finita fosse corrotto, era impossibile che dei poliziotti non sottostassero alle norme giuridiche che garantivano l'incolumità fisica dei detenuti e il rispetto della loro persona. Mi tastai il labbro con le mani bloccate dalle manette e sentii il gonfiore del labbro e un piccolo grumolo di sangue formarsi. Me lo pulii con astrusità e guardai il poliziotto con uno sguardo animalesco, «non finisce qui. Ti denuncerò ai tuoi superiori» feci minacciosa con una smorfia sul viso, «chi crederebbe ad una come te? Sia chiaro in un carcere sono i poliziotti a comandare».
Fui presa dal terreno e trasportata fuori, salii sul furgoncino con lo sbirro alla guida cercando in qualche modo di realizzare cioè che era successo. E lì da sola, cominciai a tremare temendo il posto in cui ero finita.
Dopo venti minuti di silenzio e immobilità, le porte del furgone si aprirono e fui portata in caserma, i miei genitori non c'erano.
«A dopo» sussurrò tetramente lo stronzo, fui affidata ad altri sbirri con una divisa diversa, tanto erano lo stesso tutti uguali.
«Bethany» esclamò l'ispettore Brown, l'unico che tra tutti riusciva a regalarmi della sicurezza. Non vidi Bieber vicino a lui e in qualche modo mi rattristai, camminai a testa bassa verso uno stanzino buio con un tavolo e due sedie.
«Siediti» mi fu poi ordinato da una donna senza divisa, in caserma quasi nessuno la indossava anche perché la maggior parte di loro erano agenti, ispettori, gendarme, detective e lavoratori che si occupavano della revisione dei dati e che si occupavano di casi. Una cosa già più diversa dei poliziotti. Mi sedetti, mi tolse le manette.
«Tra poco arriva chi ti interrogherà come si deve», «comincio già a tremare» mormorai e lei uscì.
«Buonasera Bethany Julie Snike» disse un uomo sulla quarantina con un paio di fascicoli in mano, «cominciamo subito».
«Dalle analisi mediche risulta che prima di fare la scappatella tu abbia assunto della cocaina. Dove l'hai presa?»
«Quando sono scappata l'ho comprata da un venditore ambulante», «non avevi i soldi con te».
«Gli ho presi da casa», «si da il caso che l'analisi medica abbia dato invece come risultato delle cose diverse».
«Cioè?» domandai inarcando un sopracciglio, attenta alle mie affermazioni. Sorrise, «mi stai chiaramente prendendo in giro e con me nessuno lo fa, non mi conosci bene a quanto pare» risuonò con la sua voce profonda e roca, tentava di incutermi timore, peccato che avesse trovato pane per i suoi denti ingialliti e incrostati. «Non ci tengo a conoscerti».
«Le analisi del tuo sangue dicono che ti sei drogata di sera perché i residui di cocaina erano già scomposti e ben assorbiti dalle cellule nervose, che perturbandosi ti hanno alterato l'equilibrio psicologico e ti hanno incentivata a fuggire».
Mi sentii sudare, era la mia parola contro quella di perfetti esami tossicologici, cosa che i miei genitori mi avevano obbligata più volte a fare e da quelli erano risaliti alle sostanze di cui facevo uso. «Stronzate» borbottai alle strette.
«Chi ti ha mandato la cocaina?» chiese, «nessuno» risposi sempre più in difficoltà. Colpì il tavolo con la mano e sobbalzai leggermente, «RISPONDIMI» gridò, «non ho intenzione di dire neanche una parola» sussurrai con un tono di sfida.
«Finisci nei guai», «non ci sono già?» chiesi. «Se non rispondi andrai nei casini e ti renderò la vita un incubo».
Stralunai gli occhi, «ispettore dei miei stivali, ecco cosa sei». Si alzò e mi aspettai uno schiaffo, come il mingherlino in carcere. Strizzai gli occhi e solo dopo mi ricomposi, «la droga ti è arrivata nel pasto che hai ricevuto, segno che l'hai ordinata da un esterno» affermò alludendo ad una presenza, infatti me l'ero fatta inviare da Max un ragazzo in un circolo di droga molto più grande di quanto sembrava e la polizia voleva arrivarci. «Non potrebbe essere un interno?» cercai di confondergli le idee, il suo viso si contrasse in una smorfia «impossibile» mormorò. «Never say never».
Passammo due intere ore così, lui faceva domande e io sviavo l'argomento, non rispondevo oppure mentivo attenta a non ingarbugliarmi, finché non ci rinunciò.
«E così l'ispettore Rivers alza la bandierina bianca» ridacchiai, era sudato per quanto aveva strillato e sbraitato. Annuì con fermezza come a dire 'stai a vedere', si alzò dalla sedia che cadde a terra, prese il cappotto e sparì dietro alla porta. Mi alzai per sgranchirmi le ossa, finché la porta non si spalancò.

Black WidowWhere stories live. Discover now