17. Ragazzina

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Verso le dieci eravamo pronti per partire. Avevamo fatto colazione, preso delle munizioni dalla scorta di Halsey e cambiato gli indumenti, grazie alla famiglia Frangipane che ce li aveva dati. Nicole il giorno prima aveva notato quanto fossero sporchi i nostri vestiti e si era occupata di darcene di nuovi e puliti. Mi sentivo in debito con loro. Erano brave persone e non volevo togliergli qualcosa, quella roba gli sarebbe potuta servire.
Ore prima mi ero svegliata abbracciata a Camila, mentre quest'ultima aveva il capo sul mio petto con un morbido sorriso sul volto. Avevamo dormito abbracciate e sapevo che quel benessere che provavo era a causa sua. Quale altro motivo poteva esserci?
Era da quando mi ero avvicinata a lei che gli incubi avevano smesso di tormentarmi e ieri, non so come, era riuscita a farmi addormentare di nuovo.
Di solito, dopo un incubo, era difficile trovare la forza di chiudere di nuovo gli occhi e sapevo che, nonostante gli sforzi, non ci sarei riuscita. Quindi, sconfitta, cercavo di trovare qualcosa da fare. Spesso leggevo libri che già in passato mi avevano fatto compagnia, oppure lucidavo le armi, pulivo i vestiti, facevo degli esercizi come gli addominali e le flessioni, alzavo anche dei pesi, gentilmente regalati da Normani dopo che mi vide mentre mi allenavo. Questo mi portò ad avere addominali ben definiti e bicipiti leggermente ingrossati, niente di esagerato però. Cercavo un modo di distrarmi per non farmi raggiungere dai pensieri, sapevo che se l'avessero fatto sarei stata fottuta.
Osservai per un po' la cubana, finché non si svegliò. Dovetti fingere di aver aperto gli occhi da poco e, per mia grande fortuna, ero un'abile bugiarda. Mi diede il buongiorno timidamente, stropicciandosi gli occhi e passando successivamente una mano tra i suoi capelli spettinati. Si allontanò da me, rivolgendomi un piccolo sorriso e alzandosi.
Poi sembrò come essere colpita da qualcosa e i suoi occhi si aprirono, mentre un velo di consapevolezza si posò su di loro. Schiuse le labbra screpolate, come se volesse parlare. Ma io non volevo, era troppo presto. Non ero pronta per avere quella conversazione.
Cercai una via di fuga, una scappatoia, desiderando per la prima volta, da quando l'avevo conosciuta, di essere lontana da lei.

«Andiamo dagli altri» borbottai impacciatamente e lei mi guardò ancora in quel modo: come se capisse.

Quando fu il momento di andare, io e Camila non ci parlammo, non ci abbracciammo come fecero Dinah e Noah o Halsey con suo fratello Kyle. I nostri occhi lo fecero per noi: si strinsero forte, si allacciarono, parlarono come la voce non sarebbe mai riuscita a fare. Non ci fu bisogno di rassicurazioni, di promesse di ritorno. Lei lo sapeva: sapeva che non l'avrei lasciata sola, che avrei sempre trovato un modo di trovarla. Sapeva che sarei tornata.

L'aria fredda ci avvolse e, a primo impatto, rabbrividii. Ringraziai mentalmente Nicole, ancora una volta, per i guanti neri che mi aveva dato con tanta dolcezza.
La maglia nera con scollo a V, straordinariamente non rovinata, insieme al parka del medesimo colore e i jeans pesanti beige, mi proteggevano dalla temperatura del posto. Il pantalone militare e la roba che indossavo prima l'avevo lavata, non contenta di far fare tutto alla madre della mia amica. Era una brava donna, gentile e amorevole. Aveva il viso magro, le rughe sulla fronte e degli occhi scuri e dolci. I suoi capelli erano castani, ma la vecchiaia li stava facendo diventare bianchi e spenti. Mi ricordava tanto lei, vederla mi faceva quasi male fisicamente. Erano simili su molti aspetti, perfino caratterialmente. Anche lei era dolce, lo era sempre. Era forte e coraggiosa, si prendeva cura di tutti: di noi, dei suoi pazienti, delle sue amiche, dei nostri amici, dei suoi familiari, perfino dei randagi per strada. Non ci faceva mai mancare nulla, era sempre pronta ad accontentarci. Certo, non ci permetteva di fare tutto e di avere tutto, ma era anche giusto così, no? Ci aveva insegnato il rispetto di ciò che ci circondava, delle persone e delle regole. Ci aveva insegnato che spesso non tutto era dovuto, che non era importante seguire l'ultima moda o di avere l'ultimo modello di iphone, che se qualcuno ci giudicava non per forza doveva aver ragione: diceva che nessuno ci conosceva meglio di noi stessi e aveva proprio ragione. E la lista di tutto ciò che sapevo grazie a lei continuerebbe ancora per molto. Le dovevo tutto, tutto.
Nicole me la ricordava e un po' lo odiavo. La volevo conservare, volevo tenerla per me. Lei era unica, vedere la sua pallida fotocopia uscita male mi svuotava la testa. Ogni volta che parlavo con Nicole, che la guardavo, contavo le differenze che avevano; le ripetevo mentalmente in continuazione, quasi come se fosse un modo per tranquillizzarmi. Mi sentivo una folle, ma non potevo farne a meno.

Appena fuori il grande parcheggio della scuola, ci accorgemmo di non essere soli: c'erano degli infetti sparsi, alcuni sulle macchine grugnivano presi da forti tremori. Ridussi gli occhi in due fessure, per nulla contenta della loro presenza; mi guardai attorno, pensando a una "scorciatoia" che ci permettesse di aggirarli, o sorpassarli senza farci vedere.
Ma era impossibile, dallo sbuffo di Halsey capii che lo aveva notato anche lei.
Si armò: un fucile a pompa nella sua cintura, un cortello da caccia tra le sue piccole, ma forti, mani e un arco di legno, insieme al contenitore delle frecce e queste ultime, tenuto dietro la schiena. Poi diresse gli occhi verso di me, premurandosi delle mie condizioni. Noah, intanto, mi affiancò con posa sicura e il mento verso l'alto, altro gesto che dimostrava la sua strafottenza verso quella situazione. Era sicuro di sé, sapeva di essere più che capace di cavarsela, per non parlare di quanto odiava quei mostri. Ucciderli non poteva fargli che piacere.

«Dimmi che ce la fai, Laur» quasi mi pregò, muovendo la gamba con impazienza e battendo il piede al suolo, più e più volte, di conseguenza. La sua mascella era rigida, gli occhi pieni di risentimento e rabbia. Per un attimo mi chiesi cosa gli avessero fatto, cosa gli avessero levato. Non era semplice diprezzo per aver distrutto il mondo che conoscevamo, per aver stravolto e peggiorato la sua vita. Era molto di più e tutto di lui, in quel momento, sembrava urlarlo.

«Si» confermai, sentendo quella sua stessa rabbia scorrermi nelle vene.

«Okay, separati?» ci domandò Hal, ottenendo una risposta affermativa da entrambi

La mitragliatrice non era mai stata pesante come in quel momento, la spalla su cui si poggiava la fascia dell'arma, sembrava bruciare, mi ustionava la pelle nonostante non avesse un contatto diretto con essa. La spostai, in modo che l'arma fosse dietro la mia schiena e non mi intralciasse.
Presi il coltello, avvicinandomi a uno degli infetti. Poco distante da lui, circa due o tre metri, c'era un blind. Avrei dovuto agire in fretta, ma cautamente. Cercai una soluzione, qualcosa che mi sarebbe stato d'aiuto e quando intravidi una bottiglia di vetro vicino ad un auto, seppi esattamente cosa dovevo fare.
L'afferrai e, attenta, la lanciai il più lontano possibile dall'infetto e a pochissima distanza dal blind. Quest'ultimo corse verso il rumore, mentre l'altro si allertò solamente. Ne approfittai, uccidendolo appena gli fui vicina e camminando verso il blind a piccoli passi, abbassandomi leggermente. Lui continuava a guardarsi attorno freneticamente, pur non vedendo nulla. Aspettai che si calmasse, che si fermasse, per poi piantargli l'arma nel capo una volta averlo raggiunto. Il loro odore mi disgustava, la loro carne marcia doveva essere la causa di quel tanfo. La loro pelle si autodistruggeva, putrefaceva, erano come carcasse di carne morta e ossa deboli.
Pulii il coltello sulla felpa sgualcita, sporca e rotta del blind, prima di cercare i ragazzi. Mentre mi inoltravo al centro del parcheggio, mi ritrovai con il viso a pochi centrimetri da un infetto, che fu rapido ad agire; le sue mani afferrarono le mie spalle, il suo corpo impattò contro il mio, al suolo, e il suo braccio finì sul mio collo. Riuscii a mettere anche io il braccio sul suo petto, in modo da tenerlo lontano da me. I suoi occhi neri, annacquati, mi scrutavano senza emozione. Era una donna, o almeno lo era prima. Sembrava giovane, molto giovane. I suoi capelli erano biondi, biondissimi: avevano lo stesso colore del grano, del sole. Le labbra grandi, prima probabilmente perfette, erano esageratamente screpolate, come il resto del suo viso. Le guance, per esempio, forse prima lisce e morbide, ora avevano dei piccoli solchi.

Era così ingiusto, così fottutamente ingiusto.

Non riuscivo ad allontanarla, era in una posizione di predominanza e io, in quel momento, ero troppo debole per ribellarmi.
Era solo una ragazzina, come Camila, come me quindici anni fa..
Una ragazzina che si era ritrovata ad affrontare qualcosa più grande di lei, come molti e molti altri. Una ragazzina che molto probabilmente stava pagando per errori non commessi da lei. Perché io alla cazzata del fungo non ci credevo. No, non aveva senso. Se davvero fosse quella la causa, sarebbe dovuto succedere anni ed anni prima. Qualcuno aveva fatto qualcosa, ne ero sicura. Non era il disprezzo, che provavo nei confronti della mia stessa razza, che mi faceva parlare così. Era la consapevolezza dell'esistenza di persone, esseri umani dotati di un cervello in grado di controllare, cattive e senza scrupoli. Lei me lo aveva detto: "Noi possiamo essere i peggiori".

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