Capitolo 1

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Corsi per i corridoi della scuola affollata, anche quel giorno ero riuscita ad arrivare in ritardo, come da prassi da un paio di mesi.

Non riuscivo a capire perché non riuscissi mai ad arrivare puntuale a scuola, era come se il mio cervello si rifiutasse di prendere sul serio gli orari che mi davano.

Entrai in aula con un ritardo esatto di diciassette minuti, in un modo poco aggraziato come mio solito fare, e vidi la classe, completamente piena, fissarmi con uno sguardo frustrato, ci avevano fatto l'abitudine, succedeva ogni giorno.

Mi beccai inoltre la solita ramanzina da parte della mia professoressa isterica di matematica, guadagnandomi le risatine da parte di tutti i presenti.

Mi voltai e guardai ogni singola persona con un'occhiata irritata, zittendo tutti.

«Allen! È la terza volta questa settimana che arrivi in ritardo!» mi sgridò infastidita la professoressa.

«Lo so, non succederà più, mi scusi» biascicai annoiata dal suo tono di voce stridulo e irritante.

«Lo ripeti ogni volta, al prossimo ritardo vai dritta dal preside, ora siediti» mi ammonì con quella sua espressione perfida e le tirai un'occhiataccia.

Mi trascinai fino al posto vicino la mia migliore amica, Alexandra, e notai il suo ghigno stampato sul viso che provava a nascondere inutilmente.

«Notte bianca eh, Lyx?» disse ridendo leggermente, ricordando una me versione ubriaca la sera precedente.

Uscire la sera, sapendo che il giorno dopo c'è scuola, è una delle idee peggiori che una persona possa mai avere, ma io puntualmente mi ritrovavo a farlo sempre.

Non sapevo come ci riuscisse la mia migliore amica, ma lei dopo una notte passata a fare davvero tanto casino, il giorno dopo era fresca come una rosa, io invece sembravo la comparsa perfetta per un film incentrato sugli zombie.

«Sta zitta Alex, ho un dopo sbronza atroce e inoltre mi devo sopportare le lamentele della professoressa Smith a prima ora, non è per nulla una passeggiata» dissi sbattendo la testa sul banco dalla frustrazione.

In quel momento il mio cervello era richiamato solo dal letto, qualunque altra cosa intorno aveva perso definitivamente importanza.

«Hai studiato per il test di letteratura?» alzai di scatto la testa con gli occhi sbarrati, Alex mi guardò trattenendo un sorriso sghembo.

Ovviamente avevo completamente rimosso dalla mia stupida mente di avere un test importante.

«Oh ti prego non dirmi che te ne sei dimenticata, sai che Williamson è severo» sussurrò la mia amica per non farsi sentire dalla professoressa, che stava spiegando un nuovo argomento, che a me sembrava arabo antico.

Io e la matematica camminavamo su due rette parallele, non ci incontravamo mai.

Emisi un grugnito degno da film dell'orrore, e pensai a quanto la mia vita potesse fare schifo.

Non sapevo nulla per quel test, e non potevo nemmeno giustificarmi, dato che il professore di letteratura lo aveva segnato nel calendario una settimana prima.

Ero un'idiota.

Passarono due ore, quando entrò il tanto temuto professor Williamson, colui con la quale avevo il test quel giorno.

Egli iniziò a dividere i fogli ad ognuno, e leggendo la prima domanda già sentii i grilli fare il loro stupido verso nella mia testa.

Passai tutta la durata del test a rispondere alle domande in modo abbastanza casuale, provando ad utilizzare a volte della logica.

«Lyx, cos'hai risposto nelle domande sul retro?» mi chiese la mia migliore amica una volta uscite dall'aula dopo il test.

Mi bloccai immediatamente sui miei passi, scioccata dalle sue parole.

«C'erano domande nel retro?» chiesi spaventata, ricordando di non aver nemmeno provato a voltare quel dannato pezzo di carta.

La mia amica mi guardò per qualche istante, provando a capire se stessi scherzando, e vedendo la mia serietà spalancò gli occhi.

«Certo, erano pure quelle fondamentali, ti ricorderai mai che il foglio va sempre girato, per sicurezza?» rispose lei saccente alzando gli occhi al cielo.

«Sono una causa persa» chiusi gli occhi irritata dalla mia vita.

Alexandra sorrise divertita dalla situazione, era quasi un'abitudine per me rovinarmi la vita quotidianamente.

«Ci vediamo domani, piccolo guaio» mi scompigliò i capelli come si fa con una bambina, e si diresse all'esterno dall'istituto, lasciandomi sola nel bel mezzo del corridoio pieno di studenti isterici.

Sbuffai e decisi di incamminarmi verso casa, fingendo che solo nell'arco di poche ore avevo avuto più sfiga di un anno intero.

«Ciao mamma» esclamai entrando a casa.
Buttai lo zaino con poca grazia in un angolo ignoto del salotto, e mi diressi in camera mia.

Avevo solo bisogno di stare da sola in silenzio, a rimuginare su tutto.

Mi squillò il cellulare e lessi il nome della mia amica.

«Cosa c'è?» risposi annoiata.

«Volevo sapere se, come al solito, ti eri buttata sul letto a non fare nulla se non a pensare a tutta la tua sfiga di oggi» disse con un tono di voce di chi la sapeva lunga.

Ruotai gli occhi, era la mia migliore amica da tempo, e per questo mi conosceva perfettamente come il palmo delle sue mani.

«Mi conosci bene, lo sai» mormorai, «Comunque tra un po' studio, almeno faccio qualcosa di produttivo, non preoccuparti per me, mamma.»

Adoravo prenderla in giro per il suo lato protettivo e materno che aveva nei miei confronti.

«Non chiamarmi così! Lo faccio per te» scherzò, «Devo staccare, ci sentiamo, e studia.»

La salutai e chiusi la chiamata, mantenendo un sorriso stampato in faccia.

Alexandra era davvero speciale per me, riusciva a capirmi in pochi istanti, e ogni tal volta che il mio umore era giù, lei era in grado di farmelo tornare su, in un modo o nell'altro.

«Aly, é pronta la cena!» sentii urlare da mia madre dal piano di sotto.

Aprii gli occhi di scatto, e guardai la sveglia accanto al mio letto, per vedere l'orario.

Era sera e io non avevo fatto un bel niente perché mi ero addormentata cadendo in un sonno talmente profondo da poter essere quasi chiamato coma.

«Non ho fame, devo finire di studiare e poi mi addormento» inventai sul momento urlando dalla mia camera.

Mia madre era abituata ormai a quel mio modo di fare un po' solitario, per questo non ribatté.

In realtà non mi sentivo semplicemente in vena di stare in compagnia e sentire le fatidiche domande convenzionali: «come va a scuola?», «Com'è andata oggi?» e puntualmente la risposta era sempre la medesima, «Tutto bene.», quando in realtà era tutto uno schifo.

Gli adulti questa la chiamavano "adolescenza", io la chiamavo semplicemente "vita".

Mi stesi sul letto, e pensai al dolore di testa che persisteva in un modo fastidioso.

La sbronza doveva essere sicuramente passata, quindi probabilmente mi stava semplicemente venendo un'emicrania.

«Tanto per migliorare le cose» sussurrai a me stessa, lamentandomi del dolore.

Era dicembre, e a New York i gradi erano quasi sotto zero, eppure io sentivo il sudore colare lungo la mia schiena, come se fosse una calda giornata estiva.

Spostai bruscamente con i piedi le lenzuola pesanti, e guardai confusa la maglia del mio pigiama appiccicata al mio corpo.

Cosa diamine mi stava succedendo?

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Benvenuti nel primo capitolo!
Spero che questa storia vi intrighi, nonostante possa sembrare lenta all'inizio.
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